Le elezioni regionali si avvicinano, in Calabria, tra un misto di noia ed inquietudine per la classe lavoratrice e popolare della regione; se è vero, infatti, che le coalizioni tradizionali facenti capo a Centrodestra e Partito Democratico rappresentano, ancora, i più spudorati interessi incrociati fra oligopolisti privati e settore pubblico, le alternative di “rottura”, il sindaco di Napoli Luigi De Magistris e il leader di Tesoro Calabria Carlo Tansi (con quel che resta del M5S che orbiterà intorno ad essi), sembrano giocarsi le loro carte soprattutto sul terreno del classico “legalismo” e del richiamo alla trasparenza, conditi da qualche rivendicazione circa l’equità territoriale.
È, insomma, del tutto assente un’analisi approfondita del sistema economico della regione, sistema che riflette – esacerbandolo – quello nazionale e che rende inevitabile un’alterazione ex ante della democrazia sostanziale in Calabria. In altre parole: non sembra essere ancora sorta la coscienza secondo la quale, a meno di non rovesciare radicalmente i rapporti di forza nei luoghi di lavoro della Calabria ove albergano caporalato, sfruttamento, speculazione e, dunque, clientelismo, sia il richiamo alla legalità che quello all’“equità” saranno pure espressioni verbali, idealizzate.
L’esempio maggiore di questa condizione è ovviamente il sistema sanitario, commissariato ormai da più di dieci anni.
Un sistema dilaniato da scandali ai quali ormai la popolazione è assuefatta e che riflettono sempre il clientelismo verso i privati e i “notabili”, che sono alla radice del suo disfacimento. Ultimo in ordine cronologico il caso dei bilanci truccati dell’Asp di Cosenza, con responsabili gli ex vertici dell’azienda cosentina, accusati a vario titolo di abuso d’ufficio e falso in atto pubblico, colpevoli di aver approvato i bilanci taroccati dell’Asp di Cosenza nonostante il parere negativo del collegio sindacale e senza disporre alcuna verifica aggiuntiva. L’Asp in questione ha destinato, ricorda il procuratore di Cosenza Spagnuolo, ben 700 milioni di euro nel 2017 all’acquisizione di beni e servizi di strutture private convenzionate. In più, bandi e assegnazioni venivano formulati “in funzione dei titoli e dei curricula degli aspiranti in un’ottica marcatamente clientelare”.
Ad ogni scandalo si cerca ciclicamente di sopperire con nuove nomine. A proposito, è stata appena firmata la nuova intesa tra il presidente facente funzioni della Giunta regionale della Calabria, Nino Spirlì, e il commissario ad acta della Sanità, Guido Longo, per la nomina dei nuovi commissari delle Aziende Sanitarie e ospedaliere della Calabria. Viene da chiedersi quale spinta propulsiva al “rinnovamento” potranno avere dei manager che provengono, sempre, dagli ambienti manageriali della Pa regionale (in molti casi si è trattata di una rotazione) e che, soprattutto, devono limitarsi ad applicare il modello aziendalistico della gestione del diritto alla salute.
In sanità la Calabria spende da anni, pro-capite, fino a duecento milioni all’anno in meno della media nazionale, perché non riceve fondi commisurati alle sue esigenze epidemiologiche. Questo rende il piano di rientro moralmente illegittimo. Da qui la diminuzione da 4,47 a 2,98 posti letto ogni mille abitanti negli ultimi dieci anni. La “sperequazione territoriale” di cui è vittima la regione non è, però, un banale effetto di una “discriminazione verso il Sud”. Essa è uno dei tanti effetti dell’aziendalizzazione del SSN: i rami del sistema con meno entrate devono chiudere e/o delegare il servizio al privato, specialista nel puntare ai soli ambiti lucrosi.
Ecco così che regione spende, come si è visto, cifre abnormi ogni anno per la sanità privata convenzionata. Parliamo di strutture che si occupano degli interventi più profittevoli mentre lasciano al pubblico le pratiche “svantaggiose” come il pronto soccorso e la terapia intensiva. Esse ottengono spesso rimborsi maggiorati attraverso falsificazioni dei DRG e doppie fatture pagate, oltre a fare pressioni politiche per spese inefficienti e per non far funzionare le cose nel pubblico. Uno degli ultimi esempi è dato dall’operazione “Cuore matto”, che ha svelato una serie di falsi ricoveri nella clinica privata Sant’Anna Hospital tra il 2013 e il 2019 per percepire rimborsi dal servizio sanitario regionale per una somma pari a 10,5 milioni di euro, possibile proprio grazie anche a oltre mille falsi ricoveri in terapia intensiva coronarica.
Lo smantellamento del sistema sanitario pubblico si può solo spiegare tenendo conto degli interessi del grande capitale e dell’imprenditoria a trasformare un diritto in un’azienda.
Questo discorso si estende, ovviamente, al diritto al lavoro e all’intera gestione dei servizi pubblici e dei rapporti lavorativi nella regione Calabria.
È notizia degli ultimi giorni la messa in amministrazione giudiziaria per la società di navigazione privata Caronte & Tourist, la più grande azienda dello Stretto per fatturato e numero di dipendenti, che per anni, se non decenni, ha finito per agevolare i clan con subappalti, commesse, assunzioni a richiesta. C’è da chiedersi la ragione economica e sociale per la quale un servizio così importante sia da decenni dato in concessione ad un privato che, spesso, è anche l’unico a partecipare alla gara. Gli appalti, i subappalti e le concessioni sono, soprattutto in Calabria, il sistema più facile per aggirare i vincoli di trasparenza dei concorsi pubblici e innestare nel tessuto sociale la logica del caporalato e del clientelismo lavorativo.
La delega ai privati dei servizi fondamentali rimane la maggiore piaga del territorio. Privati che, molto spesso, lungi dal garantire un servizio più efficiente del pubblico, sfruttano concessioni e sussidi pubblici consci del grande potere negoziale che la gestione di servizi che sono monopoli naturali permette loro di fare. E, nel peggiore dei casi, sono intimamente connessi con gli interessi privati dei politici e dei dirigenti che concedono loro gli appalti e le gestioni pubbliche.
Un esempio su tutti è la gestione della società idrica Sorical insieme a quella che è stata per anni il suo azionista privato, la francese Veolia. Nel 2012, venne fuori che all’appello degli investimenti mancavano 25 milioni di Euro, quelli che Veolia avrebbe dovuto mettere dopo quelli versati dalla Regione.
Per rispondere alla crisi Covid, la Regione Calabria – come il governo nazionale – ha offerto alle imprese diversi sostegni economici (la tranche primaverile ammontava a circa 400 milioni di euro in aggregato). Questo senza, però, porre alcuna condizione sul rispetto delle normative Covid (soprattutto nel periodo estivo) e sulla stabilizzazione dei lavoratori. Il blocco dei licenziamenti ha avuto poco senso in una terra dove la maggior parte del lavoro è stagionale, a tempo determinato o addirittura in nero. Il risultato è stato una macelleria sociale con migliaia di dipendenti costretti, soprattutto nelle imprese turistiche, a lavorare senza dispositivi di protezione individuale – e ciò ha influito sull’esplosione della seconda ondata. Non si sono fatti attendere, poi, casi come quello del call centre di Abramo, che macina commesse e utili come non mai e riesce ad “apparire” come un’impresa bisognosa di Fondo Integrazione Salariale per sfruttare i sussidi statali per malcelati scopi di ristrutturazione interna.
Se la condizioni di lavoro di queste categorie, da pessime che erano, sono divenute infime nel corso della pandemia, sembrerebbe sorprendente segnalare che persino categorie facenti capo al settore “pubblico” sono state sfruttate per fare cassa e creare un “plusvalore pubblico” che serve fondamentalmente a pagare rendite a grossi privati (ricordiamo che la regione Calabria sborsa una rata annuale da 30,7 milioni a un tasso usuraio annuo del 5,89% per ripagare i debiti sanitari contratti con il Governo – il quale a sua volta spende ancora, in interessi passivi, circa 60 miliardi di euro all’anno).
Questo si riflette nel caporalato legalizzato dei tirocinanti della Pubblica Amministrazione, nel precariato degli infermieri delle Asp calabresi, nelle mancate indennità pagate ai professionisti del 118, nei fondi che spariscono invece di andare agli operai dei consorzi di bonifica e nei ciclici ritardi a catena nei pagamenti dai comuni alle ditte in appalto e dalle ditte agli operatori ecologici, con questi sempre ultima ruota del carro nei momenti di crisi. Grottesco, anche, il caso degli assistenti sociali inquadrati come professionisti con partita Iva in ambiti come, ad esempio, il Comune di Cosenza.
Ricapitolando: un modello economico dove i servizi pubblici sono alla mercé delle necessità di profitto del capitale privato (con ciò che ne consegue negli investimenti di interesse collettivo e nello sfruttamento della forza lavoro) e dove il settore privato stesso, in assenza di un’organizzazione di massa dei lavoratori, estremizza il suo ricatto verso chi non ha che da vivere del proprio lavoro, ricatto che corrisponde anche a quello elettorale nella nota raccolta dei voti da parte dei “notabili”.
Due aspetti intimamente collegati che fanno capo alla totale perdita di rilevanza della classe lavoratrice che, non avendo un’organizzazione politica propria in Italia e men che meno in Calabria, non riesce a incidere sul comportamento di tali soggetti economici dominanti, oltre non riuscire a controllare le istituzioni “democratiche” responsabili della cessione ai privati dell’erogazione dei diritti universali.
Ha senso, dunque, parlare di “lotta per la legalità” e battaglia per l’equità se ciò che è legale è ritagliato in funzione di tali rapporti di forza e se persino il coraggio di far rispettare i diritti già in essere dipende dal livello di ricatto lavorativo che la classe dominante può utilizzare nei confronti di quella subalterna?
E, per di più, ha senso parlare di elezioni democratiche se il voto democratico stesso è in funzione di queste relazioni inique e di tali ricatti?
La “democrazia”, in Calabria come in Italia, deve ripartire dai luoghi di lavoro e deve sostanziarsi nella lotta, fuori e dentro le istituzioni, della classe degli sfruttati. Una classe che in Calabria, anche per via del suo tessuto produttivo disgregato e della tendenza dei dipendenti a vedere i micro-imprenditori come “colleghi” alla pari anche quando sfruttano i primi con paghe da due o tre euro l’ora e con contratti irregolari, non possiede neppure la coscienza in sé, men che meno quella di costituire una classe e l’urgenza di unirsi superando le barriere settoriali e geografiche.
L’organizzazione di classe, dunque, diventa l’unica soluzione per risollevare una terra come questa, poiché solo i lavoratori, i disoccupati, i pensionati e gli studenti non hanno alcun interesse a mantenere in vita un sistema fondato sullo sfruttamento e la miseria della stragrande maggioranza della popolazione.