La caduta del governo Draghi
Le dimissioni di Mario Draghi e la conseguente caduta del governo che presiedeva sono conseguenza di un riposizionamento delle forze politiche borghesi che, per diversi motivi, hanno deciso di sganciarsi dalla logica dell’Unità nazionale per perseguire la propria agenda politica. Da un lato, il Movimento 5 Stelle, in drammatica crisi di consensi, ha deciso di tentare il recupero giocando la carta del ritorno alla sua natura “movimentista”, avanzando miti critiche al governo e non votando la fiducia sul DL Aiuti a causa di alcune misure non condivise che interessano bandiere del M5S come, ad esempio, il via libera al termovalorizzatore di Roma o le modifiche al Reddito di Cittadinanza; dall’altro Lega e Forza Italia vedono nell’accelerazione della crisi la possibilità di conquistare con sei mesi di anticipo, insieme a Fratelli d’Italia, la larga maggioranza che i sondaggi assegnano al centrodestra e, quindi, il governo del Paese. Per la Lega una campagna elettorale più contenuta e le elezioni anticipate, inoltre, possono essere sembrate un utile palliativo alla crescita di consensi della Meloni nello scontro per la leadership del centro-destra. La ricerca di posizioni di sostegno condizionato alle misure del governo ha così incontrato l’intransigenza del premier che, indisponibile a piegare la sua agenda governativa alle strategie elettorali dei partiti che ne componevano la maggioranza, ha posto condizioni di appoggio al suo esecutivo tali da poter essere usate come scusa per il definitivo scioglimento delle camere.
Nel mezzo di tali contese il Partito Democratico si è posizionato come il più strenuo difensore del governo, della cosiddetta “Agenda Draghi” e della collocazione dell’Italia all’interno del blocco imperialista atlantico, arrivando, con Enrico Letta, ad accusare il parlamento di aver “tradito l’Italia” e una strumentalmente presunta volontà del popolo italiano. Sullo sfondo, il combinato disposto della drastica riduzione dei parlamentari (un’altra delle bandiere del M5S) e di una legge elettorale che, attraverso l’obbligo di raccogliere un numero spropositato di firme in tempi ristrettissimi, considerata la data appositamente stabilita per le votazioni, sbarra la strada della partecipazione alle elezioni a tutte le forze politiche che non hanno già un gruppo parlamentare.
Al netto delle motivazioni che hanno portato alla crisi di governo, è importante comprendere che non c’è da farsi illusioni sull’impianto delle politiche sociali ed economiche che verranno adottate dal governo che si insedierà dopo il 25 settembre, di qualsiasi composizione esso sia. Sono in gioco le strategie di uscita da una crisi inasprita e accelerata dalla pandemia e dai conflitti militari in corso, che, in realtà, attanaglia il capitalismo da più di un decennio. Nel contesto di queste strategie, giocano un ruolo fondamentale l’accesso ai 200 miliardi di Euro del PNRR e la loro gestione e la partecipazione dell’Italia, come membro del blocco euroatlantico, a un generale scontro interimperialistico di portata ben più ampia del conflitto militare che è in corso in Ucraina. Nel primo caso, le condizionalità all’erogazione dei fondi, che impongono l’adozione di ulteriori strette sulla spesa sociale e previdenziale e misure di contenimento dei salari, sono fondamentali per il processo di ristrutturazione e ammodernamento del capitalismo italiano e sono condivise, nei loro caratteri essenziali, da tutte le forze politiche borghesi; nel secondo caso, le conseguenze dell’isteria sanzionatoria continueranno ad aggravare la spirale inflazionistica già innescata prima della guerra dall’aumento della domanda causata dalla ripresa post-pandemia, scaricando così sugli strati popolari il costo del conflitto. L’aumento della spesa militare già deciso dal governo Draghi, in un contesto di contenimento della spesa pubblica, non può che tradursi in ulteriori tagli alla spesa sociale. Le misure tampone delineate dal governo Draghi sono del tutto insufficienti ad alleviare le conseguenze catastrofiche dell’aumento del costo della vita che già colpiscono gli strati popolari e che si aggraveranno ulteriormente in autunno. Al diffuso malessere sociale il governo borghese risponde con l’inasprimento delle misure poliziesche e del terrorismo giudiziario, volti a reprimere le mobilitazioni dei lavoratori contro le scelte antipopolari che verranno messe in atto. Non solo: nell’intento di ridurre la dipendenza dal gas russo, la “transizione ecologica” di stampo capitalistico viene affiancata da misure di segno contrario, quali la posticipazione della dismissione delle centrali elettriche a carbone e olio combustibile, a dimostrazione dell’irrilevanza delle esigenze ambientali nelle scelte di “transizione green” adottate dalla borghesia.
Le liste maggiori, il centro-destra e il centro-sinistra
Il centrodestra, al netto di qualche pezzo perso da Forza Italia e di qualche blanda polemica su chi debba assumere la presidenza del consiglio dopo la probabile vittoria elettorale, si presenterà alle prossime elezioni con una lista unitaria che comprende Lega, Fratelli d’Italia, Forza Italia e Noi Moderati. La prospettiva del campo largo a cui lavorava il PD prima della crisi di governo, con il “tradimento” del Movimento 5 Stelle, è invece andata in pezzi. La costruzione dello schieramento di centro-sinistra si è dovuta misurare con il tentativo di evitare la formazione di una lista concorrente alla propria sinistra e di includere nella coalizione i centristi. Il risultato di queste doppie spinte è stato il distacco di Calenda che si presenterà alleato con Matteo Renzi nel tentativo di superare la soglia di sbarramento e fare da ago della bilancia insieme al M5S per la formazione del prossimo governo. Anche il M5S, infatti, si presenterà in solitaria con Giuseppe Conte che si gioca la carta del ritorno alle origini pur essendo la figura che ha incarnato la scelta governista del M5S.
Senza peccare di eccessiva semplificazione, possiamo affermare che le proposte politiche dei partiti fin qui considerati non si discostano le une dalle altre in maniera considerevole. Nessuno di essi mette in discussione la fedeltà alle alleanze imperialiste, NATO e UE, né le politiche di austerità dell’Unione Europea che, con le condizionalità imposte per l’erogazione dei lauti finanziamenti del PNRR, vengono definitivamente restaurate dopo la parentesi della pandemia, in cui i vincoli di spesa pubblica erano stati allentati. I partiti maggiori hanno votato congiuntamente gli indirizzi politici degli ultimi anni e, non a caso, la carta riproposta strumentalmente, per l’ennesima volta, dal Partito Democratico è l’appello a fermare l’avanzata delle destre e del fascismo.
Centro-destra e centro-sinistra hanno entrambi governato negli ultimi anni, in alcuni casi anche insieme e seguendo agende politiche indistinguibili. I governi sorretti da larghe intese o di unità nazionale sono espressione della necessità della borghesia italiana di far valere fondamentali interessi del capitale italiano in un contesto di forte competizione internazionale e di grave crisi del sistema capitalistico. Queste sollecitazioni economiche e politiche determinano un assottigliarsi delle differenze tra partiti politici borghesi in Italia. Principalmente a questo e, secondariamente, a questioni di sopravvivenza parlamentare, deve essere ricondotta la mutazione governista del Movimento 5 Stelle e l’abbandono delle posizioni “euroscettiche” da parte delle formazioni del centro-destra. In linea con tali tendenze il centro-sinistra certifica il proprio carattere di forza “responsabile” e il proprio ulteriore spostamento verso il centro (non deve stupire in questo senso la totale disponibilità di Letta all’accordo, poi sfumato, con Calenda, nel cui partito sono confluite Mara Carfagna e Mariastella Gelmini). Il Partito Democratico continua ad accreditarsi a livello internazionale come la forza politica italiana più conseguentemente europeista e atlantica, espressione degli interessi dei settori del capitale finanziario italiano che hanno tratto maggiore vantaggio dai processi di globalizzazione. Non a caso le differenze tra i due schieramenti sembrano vertere quasi esclusivamente su questioni che riguardano i diritti civili e individuali. Senza con questo voler sminuire queste differenze, è da segnalare come nella pratica anche in questi casi spesso le linee d’azione finiscono per assomigliarsi, come nel caso dell’immigrazione e dei Decreti Sicurezza, basati sull’impianto dei decreti Minniti del precedente governo Gentiloni, mai sconfessati dai governi successivi.
Anche la candidatura in solitaria del Movimento 5 Stelle non deve creare l’illusione di una sua diversità sostanziale: questa forza politica, dopo aver dilapidato il proprio consenso nel paese ed essere passata attraverso innumerevoli scissioni da destra e da sinistra, tenta con Conte di rifarsi una verginità politica. La retorica del M5S recupera in parte la fraseologia e i temi delle origini, senza però che quelli si siano dimostrati in grado di portare alcun effettivo cambiamento. Il processo di integrazione del M5S nella gestione dello Stato non ha prodotto il rivoltamento del parlamento, ma al contrario la cooptazione del Movimento all’interno dei meccanismi di governo del potere politico borghese, governando alternativamente in alleanza con Lega e Partito Democratico, per poi partecipare al governo di unità nazionale di Draghi. Questa evoluzione non deve essere imputata a presunti tradimenti (di cui in ogni caso l’attuale gruppo dirigente del M5S sarebbe pienamente responsabile), ma dalla natura delle proposte messe in campo, del tutto compatibili con una riorganizzazione, neppure avvenuta, della gestione putrescente del parlamentarismo borghese italiano. Il ruolo funzionale del M5S è consistito nel convogliare parte del dissenso verso la gestione politica dei partiti maggiori, salvandoli dal rapido declino che le reiterate politiche di austerità avrebbero potuto causare.
Il quadro di convergenza delle posizioni politiche dei partiti maggiori tratteggiato non deve essere considerato come immutabile. Il quadro internazionale è in continuo mutamento e ciò può determinare adeguamenti delle tattiche e delle strategie con cui la borghesia italiana difende i propri interessi e persegue i propri obiettivi, con sicure ripercussioni sul panorama politico italiano in termini di ridefinizione degli schieramenti e riposizionamenti dei partiti senza, però, che ciò cambi il carattere antioperaio e antipopolare sia delle forze di centro-destra che di centro-sinistra.
In ogni caso, la classe operaia e i ceti popolari non devono attendersi “governi amici”, poiché qualsiasi governo uscirà dalle elezioni del 25 settembre sarà sempre il braccio esecutivo della dittatura di classe del capitale e, quindi, nemico dei lavoratori.
Al di fuori degli schieramenti principali
Al di fuori dei grandi schieramenti di centro-destra e centro-sinistra è utile soffermarsi su due raggruppamenti impegnati nelle ultime fasi della raccolta firme per essere presenti nella prossima tornata elettorale: Unione popolare e Italia Sovrana e Popolare.
Nel primo caso si tratta del raggruppamento costituito da Potere al Popolo e Rifondazione Comunista, i cui parlamentari intercettati tra i fuoriusciti del M5S hanno formato il gruppo parlamentare ManifestA. La lista presenterà come candidato premier Luigi De Magistris ed è espressione della Sinistra Europea in Italia. La composizione di questo raggruppamento si è definita dopo una prima fase di incertezza, dal momento che De Magistris e Rifondazione spingevano per un allargamento che coinvolgesse Conte e ciò che resta del M5S. La coazione a ripetere le esperienze che, dalla Lista Arcobaleno, hanno decretato l’esclusione della sinistra radicale dal parlamento, in questo caso incrocia tendenze all’allargamento che ne inquinano ulteriormente le linee programmatiche con velleità riformiste. Il corteggiamento a Conte, responsabile della promulgazione dei Decreti Sicurezza e della fallimentare gestione capitalistica della pandemia, tradisce, inoltre, la ricerca disperata di un risultato che permetta di superare lo sbarramento al quale può essere sacrificata qualsiasi radicalità delle posizioni politiche. Il tentativo di replicare in Italia i risultati conseguiti dalla Sinistra Europea in altri paesi, quali la Spagna, la Francia, e la Grecia non fa i conti con la compromissione di tali forze politiche nella gestione del potere borghese. Le esperienze di Syriza in Grecia e di Izquierda Unida in Spagna rendono evidente come tale prospettiva non conduca all’avanzamento delle forze di classe, ma ad un ammorbidimento della loro critica sociale, se non direttamente ad un appiattimento sugli interessi del nemico di classe. L’appartenenza al gruppo della Sinistra Europea, inoltre, rende questa lista parte integrante del processo di legittimazione delle istituzioni europee in Italia e della illusoria prospettiva di una loro democratizzazione.
Ciò è ancor più rilevante quando alle velleità di acquisire consenso elettorale nel quadro della democrazia borghese vengono sacrificati obiettivi di lotta politica e sindacale d’importanza cruciale nell’attuale situazione di attacco durissimo alle condizioni di vita dei proletari e ai movimenti di lotta. Affronteremo più avanti il problema essenziale della ricomposizione di classe e della rappresentanza nelle istituzioni. Basti qui sottolineare che la risposta data tramite simili raggruppamenti, anche se depurata dai rapporti con il centro-sinistra, non scioglie i nodi della natura dello stato borghese, del riformismo e della presa del potere da parte della classe operaia, ma sceglie di anteporre il calcolo elettoralistico alla presa di distanza dalle opzioni riformiste e alla lotta contro di esse che le forze di classe dovrebbero praticare.
La lista risulta essere, inoltre, quasi interamente composta da quelle forze che avevano dato vita a Potere al Popolo, le quali dopo essersi separate si ritrovano oggi, di nuovo insieme sotto un altro simbolo in quello che a occhi esterni può facilmente sembrare un girotondo ridicolo che porta le forze della sinistra radicale a presentarsi sotto una nuova veste, sempre meno radicale, ad ogni tornata elettorale.
Anche a destra sono numerose le liste minori che hanno presentato il proprio simbolo e che tenteranno la raccolta delle firme. Molte di queste formazioni sono il prodotto della disgregazione del M5S che ha portato alla nascita di differenti partiti sovranisti. L’area non è riuscita a trovare una quadra che riunisse tutte le forze, così Italexit di Paragone, Alternativa per l’Italia di Di Stefano e Adinolfi, Italia Sovrana e Popolare, che raggruppa, oltre al partito di Rizzo, le forze sovraniste dell’area complottista/euroasiatica e parte del movimento no-vax, si presentano divisi pur essendo espressione del medesimo sentimento di rivalsa nazionale proprio dei settori più reazionari della piccola e media borghesia e pur appoggiandosi alla stessa galassia comunicativa trasversale del sovranismo italiano. All’interno del raggruppamento di Italia Sovrana e Popolare spiccano esponenti antiabortisti, contro l’estensione dei diritti civili, il comunismo e la lotta di classe. Ne abbiamo parlato approfonditamente in relazione alla partecipazione ad essa del “Partito Comunista” di Marco Rizzo e non riteniamo utile spendere ulteriori considerazioni.
Il restringimento della partecipazione democratica
La retorica borghese della libera partecipazione democratica è costantemente confutata dal sistema democratico borghese stesso. In Italia questa tendenza si fa più esplicita attraverso un continuo rimaneggiamento delle leggi elettorali, costruite di volta in volta per adattarsi alle esigenze di riproduzione dei partiti maggiori. Ciò avviene anche attraverso norme stringenti sulla partecipazione elettorale per coloro che non sono già presenti in parlamento con un proprio gruppo parlamentare. Ad ogni elezione, infatti, un regolamento delle camere sancisce i presupposti per l’esenzione dalla raccolta delle firme necessarie alla presentazione della candidatura. Per tutti coloro che esenti non sono, l’unico modo per presentarsi è la raccolta di un numero incredibilmente alto di sottoscrizioni: circa 70.000 per le politiche e 120.000 per le europee, suddivise per circoscrizioni che rendono ancora più complessa la raccolta (nel caso delle europee, per presentare la propria lista in Valle D’Aosta è necessario raccogliere un numero di firme pari al 3% della popolazione del territorio). A ciò si aggiunge la difficoltà di dover raccogliere le sottoscrizioni alla presenza di un soggetto autenticatore che rende la presentazione delle liste un’operazione estremamente complessa e costosa, ponendo un ulteriore ostacolo di carattere economico alla presenza elettorale.
A questo quadro generale si aggiungono ulteriori ostacoli per ciò che riguarda le elezioni del 25 settembre. La riduzione del numero dei parlamentari di Camera e Senato che entrerà in vigore nella prossima legislatura, infatti, ha comportato la necessità di rivedere completamente la suddivisione delle circoscrizioni elettorali, rendendo impossibile l’inizio della raccolta firme prima della sua pubblicazione, avvenuta nei primi giorni di agosto. Il tempo concesso per la raccolta delle firme è dunque sceso a circa venti giorni, per giunta in piena estate.
Questa estrema riduzione delle possibilità di partecipazione elettorale trova la sua ragione nella volontà dei partiti maggiori di scongiurare la frammentazione elettorale, determinata dalla disgregazione del M5S, che potrebbe danneggiarli. Il risultato, però, è l’esclusione anche di ogni forma di dissenso di classe dall’agone politico, che si somma a una rinnovata repressione di ogni forma di lotta extraparlamentare. La riduzione degli spazi democratici coincide con un aumento della repressione a trecentosessanta gradi da parte dello stato borghese che, nei momenti in cui le misure antipopolari si fanno più oppressive e inaspriscono lo scontro di classe, non esita a rinnegare anche i principi formali con cui legittima ed esercita il proprio dominio.
La presenza delle forze di classe nelle istituzioni borghesi
Le istituzioni democratiche borghesi non sono un luogo di confronto neutro, ma sono plasmate intorno alle necessità della produzione capitalistica e della riproduzione del potere borghese. Per tale ragione è necessario sgombrare il campo da qualsiasi illusione che possano essere utilizzate per l’abbattimento del sistema capitalistico di cui sono espressione. Per questo il movimento comunista si è sempre posto il problema dell’instaurazione di nuovi e più avanzati strumenti di rappresentanza e di governo che attuino la dittatura del proletariato in sostituzione di quella della borghesia. L’analisi obiettiva dello Stato borghese e dei suoi organi, parlamento compreso, e della sua funzione nella conservazione della dittatura del capitale non esonera i comunisti dal dovere di portare avanti la propria battaglia politica in ogni campo e con ogni metodo disponibile. Anche, ma non solo, attraverso le elezioni e la lotta parlamentare è possibile far avanzare la causa del socialismo. Se così non fosse, la borghesia e i suoi partiti non si prodigherebbero, come fanno, per ridurre gli spazi di agibilità e partecipazione democratica. Inoltre, pur in presenza di un crescente astensionismo, indice sia di una progressiva disillusione (specialmente tra i ceti popolari) nei confronti dell’offerta politica, sia di una sempre maggiore delegittimazione democratica della classe dominante e dei partiti che ne sono espressione, la partecipazione elettorale e la presenza parlamentare sono ancor oggi largamente considerati come un indice della capacità dei partiti di incidere politicamente e tutelare gli interessi delle classi o dei settori di classe che fanno loro riferimento, giustificando così la propria stessa “esistenza”. Abbattere le illusioni sul parlamentarismo borghese, favorendo nel contempo una partecipazione più attiva delle masse proletarie alla politica anche a livello delle istituzioni borghesi è un compito essenziale dei comunisti che, però, non possono esimersi dalla valutazione concreta della realtà in ogni data circostanza.
L’attuale frammentazione organizzativa ed elettorale dei comunisti e la loro inconsistenza parlamentare sono un ostacolo alla riaggregazione politica e strategica dei numerosi focolai di lotta di classe che in maniera disorganica sono presenti in Italia e, quindi, allo sviluppo complessivo della lotta proletaria. Chiunque oggi si ponga sul terreno della costruzione comunista non può dunque tralasciare la questione della partecipazione elettorale, che non può essere sottovalutata, né liquidata con vuoti appelli all’astensionismo che trascurano il fatto che le istituzioni rappresentative sono uno dei terreni, non certo l’unico o il principale, su cui si può e si deve condurre la lotta, quando è possibile e utile farlo, congiuntamente alle altre forme di lotta rivoluzionaria.
Fatte queste premesse, occorre valutare come si arriverà alla prossima tornata elettorale e se esistono le condizioni per parteciparvi. Riteniamo che una formazione che dia uno sbocco elettorale alle componenti di classe più avanzate del nostro paese sia auspicabile e necessaria, ma che al momento non sussistano le condizioni per una tale aggregazione. I percorsi di riaggregazione di classe, dove il Fronte Comunista ha sostenuto battaglie operaie al fianco di altre organizzazioni, partiti, collettivi, sindacati, non hanno raggiunto, a nostro avviso, l’estensione e la profondità necessarie per conseguire questo risultato. Siamo convinti però, che il confronto, la discussione politica e ideologica e il lavoro comune tra le fila del proletariato siano la strada da percorrere affinché possano maturare alleanze, anche elettorali, che siano effettivamente espressione dei settori più combattivi della classe operaia. Non ne facciamo dunque una questione di “purezza ideologica”, come altre formazioni settarie della galassia comunista, disponibili all’unità solo con sé stesse. La formazione di una lista elettorale unitaria, però, deve poggiare su solide basi di classe, frutto di convergenze e di lotte che si producano indipendentemente dall’appuntamento elettorale e che siano funzionali a rafforzare la controffensiva proletaria e, in ultima analisi, utili alla costruzione del Partito comunista in Italia.
La grande frammentazione di sigle, da un lato, e l’immane numero di firme richieste per partecipare, dall’altro lato, rendono velleitaria una partecipazione che finirebbe per barattare la temporanea esposizione mediatica con la certificazione della propria insufficienza. Riteniamo inoltre che separare la questione della rappresentanza di classe da quella della ricomposizione della diaspora comunista e del radicamento dei comunisti nella classe operaia vuol dire perpetuare gli errori che, dopo l’esclusione dei partiti comunisti di allora dal parlamento nel 2008, hanno portato all’attuale incapacità di uscire dal circolo vizioso di alleanze puramente elettorali, destinate al fallimento e alla sconfitta, perché prive del sostegno di un vero blocco sociale di riferimento che non sia coagulato esclusivamente intorno al riconoscimento identitario.
La velleità delle proposte di testimonianza
Per le motivazioni espresse nel paragrafo precedente abbiamo scelto di non impegnare il nostro partito in una sfiancante raccolta firme estiva e nemmeno di simularne l’impegno. Abbiamo scelto di non partecipare a coalizioni elettorali a freddo perché riteniamo controproducente questo tipo di manovra quando, al momento, non esistono né una preventiva strategia comune di azione nella classe operaia, né una condivisa prospettiva di costruzione comunista in Italia. Gli appelli che riceviamo per la costituzione di cartelli elettorali d’ispirazione comunista o, peggio, allargati a non meglio precisate “forze di sinistra” sono, invece, mossi dall’illusione che si possa acquisire una massa critica che consenta la partecipazione elettorale per pura sommatoria algebrica di sigle in sostituzione della ben più impegnativa costruzione del consenso politico all’interno della classe operaia e dei suoi possibili alleati, nascondendo sotto il tappeto differenze spesso sostanziali e cercando di evidenziare i soli fattori unificanti. Come abbiamo detto più volte, questa impostazione, il cui carattere fallimentare è emerso ripetutamente negli ultimi decenni, non favorisce, ma ostacola il processo di costruzione comunista e finisce per screditare la proposta dei comunisti anche agli occhi dei settori popolari. Non condividiamo, quindi, l’idea che, nelle attuali condizioni, le elezioni possano essere un terreno unificante, sul quale accantonare le divergenze in nome di una fittizia unità e di una presenza puramente testimoniale sulla scheda elettorale, che forse gratifica perché riempie l’horror vacui dell’assenza della falce e martello sulla scheda elettorale, ma lascia invariata la moltiplicazione delle sigle, certifica l’inconsistenza per mancanza di radicamento nelle masse e finisce per rafforzare la logica del “voto utile”. La presentazione, con l’unico scopo di accedere agli spazi del “diritto di tribuna”, è per noi un enorme autogol che indebolisce le posizioni dei comunisti anziché rafforzarle.
Come già esposto, non siamo contrari in linea di principio a forme di unità, anche dal punto di vista elettorale, ma il discrimine è che la presentazione elettorale sia collegata al lavoro all’interno della classe operaia e ne sia espressione. In questo senso non esistono scorciatoie. Continueremo a lavorare affinché il processo di aggregazione delle forze di classe vada avanti, si forgi nella lotta ed esprima quell’unità di intenti e di direzione politica che permetta di costruire, anche sul piano elettorale, una formazione che sia espressione reale e riconosciuta delle componenti più avanzate e combattive della classe operaia e dei suoi alleati all’interno di un blocco sociale capace di imporre nel nostro paese la trasformazione rivoluzionaria in direzione del socialismo-comunismo.
Conclusioni
La storia recente, dal 2008 in avanti, dimostra che le liste a sinistra del PD, che si presentino in solitaria o in coalizione, con o senza il simbolo storico della falce e martello, ottengono comunque percentuali elettorali irrisorie che, a fronte di uno sforzo organizzativo immane per la raccolta firme, la presentazione delle liste e la campagna elettorale, non consentono né di avere una rappresentanza istituzionale, né di influire minimamente sul corso degli eventi, ma evidenziano inequivocabilmente una gravissima perdita di consenso e di credibilità anche all’interno del proletariato, alimentando la disillusione e il distacco dalla politica attiva di fasce sempre più larghe di lavoratori. Le ragioni di tutto ciò sono molteplici: 1) l’opportunismo dei partiti che si definivano comunisti e la loro compromissione con le politiche antioperaie e antipopolari del centro-sinistra; 2) la pluridecennale rinuncia alla lotta ideologica, che ha permesso la penetrazione all’interno del proletariato di concezioni e modelli culturali borghesi, anche reazionari e il progressivo offuscamento della prospettiva comunista; 3) l’adozione del parlamentarismo borghese come unico terreno della lotta politica e la trasformazione di quei partiti da organizzazioni di lotta in comitati elettorali che cercano, senza riuscirci, di fabbricare consenso e si rivolgono ai lavoratori solamente in occasione delle votazioni; 4) la conseguente “virtualizzazione” di quei partiti, che hanno adottato come prevalente forma d’attività la presenza sui social, a fronte dell’assenza nelle lotte reali nei luoghi di lavoro, di studio e nei quartieri popolari.
Occorre un impegno quotidiano di lunga durata sul fronte ideologico, politico e sindacale per ridare slancio e attrattiva alla prospettiva comunista in generale, riconquistare la fiducia dei lavoratori con proposte che ne rappresentino non solo i bisogni, ma anche i complessivi interessi politici di classe in contrapposizione a quelli borghesi, costruendo così quel consenso che, solo, può dare senso alla partecipazione dei comunisti alla competizione elettorale. In mancanza, saremo condannati per sempre alla marginalità e all’irrilevanza di oggi.
Per queste ragioni, pur essendo radicalmente contrari all’astensionismo di principio e comprendendo l’importanza della lotta anche dentro le istituzioni borghesi, contro di esse, abbiamo scelto di non presentarci alle elezioni politiche del prossimo 25 settembre ritenendo, inoltre, che il voto alle forze politiche presenti in questa tornata elettorale non sia utile al rafforzamento dei comunisti e agli interessi di classe dei settori popolari.