È di ieri mattina la notizia di altri due lavoratori – dopo l’operaio 39enne morto a Rocca Imperiale una settimana fa – deceduti sul territorio calabrese, due operai, uno caduto da una pedana delle officine meccaniche Tassone di Gerocarne, in provincia di Vibo Valentia, l’altro precipitato dal tetto di un capannone industriale di San Lorenzo del Vallo (lasciando moglie e 3 figli).
La Calabria purtroppo si conferma uno dei territori nei quali la noncuranza della classe imprenditoriale per la salute e la dignità dei lavoratori si manifesta nella maniera più palese.
All’interno di un sistema che mette al primo posto i “bisogni” degli imprenditori, questi incidenti confermano la realtà di una economia fondata sulla massimizzazione del profitto che, proprio nelle aree geografiche più arretrate per via della fisiologica tendenza allo sviluppo diseguale del capitalismo, necessita di estrarre plusvalore e risorse nella maniera più aggressiva possibile da lavoratori e ambiente.
Su questa linea vanno interpretati numeri come quelli divulgati dall’Ispettorato del Lavoro, per il quale, ad esempio, il 99% delle strutture turistiche calabresi risulta irregolare.
In questo contesto gli imprenditori locali risparmiano il più possibile sulle misure di sicurezza per i dipendenti e sulla tutela del territorio con pratiche come, ad esempio, lo sversamento di acque reflue degli stabilimenti nei torrenti o foraggiando ditte private nella raccolta rifiuti a discapito di una pianificazione pubblica che metta al primo posto riciclaggio ed economia circolare (nella classifica del mare inquinato, la Calabria è al 6 posto con 1.045 illeciti di cui 509 reati e 536 infrazioni amministrative).
La Calabria, inoltre, è protagonista di episodi di repressione padronale esemplari come quelli che hanno coinvolto di recente: gli operai del porto di Gioia Tauro ai quali è stato praticamente negato il diritto di sciopero e diversi sindacalisti USB che sono stati accusati di “manifestazione non autorizzata” per aver lottato per i diritti dei tirocinanti della PA.
Tutto ciò è un ostacolo politico decisivo alla capacità di resistenza dei lavoratori verso le pratiche padronali deleterie e dannose.
In una regione dove la commistione tra istituzioni pubbliche e padronato privato è profonda ai massimi livelli, in cui chi dovrebbe operare controlli è esso stesso egemonizzato dai controllati, dove un buon numero di grossi imprenditori locali è parte della classe dirigente politica e dove la concorrenza capitalistica impone tassi di sfruttamento atipici persino rispetto alla media nazionale, è illusorio pensare di cambiare le cose invocando semplicemente “maggiore legalità” o “maggiore presenza dello Stato”.
È necessario costruire un partito indipendente della classe lavoratrice che si ponga esplicitamente il problema del potere e che riesca a unire e coordinare tutte le lotte settoriali nel nome del conflitto tra capitale e lavoro.