Aderendo alle pressanti richieste del padronato, il governo Draghi ha rimosso il blocco dei licenziamenti con decorrenza dal 30 giugno 2021 per le aziende di maggiori dimensioni e dal 31 ottobre per le PMI.
In vigore dai giorni del lockdown fino ad oggi, il blocco dei licenziamenti per motivi economici non è certo servito a salvaguardare i posti di lavoro, quanto piuttosto a fornire una tutela politica alla borghesia capitalistica come classe. Ha, infatti, permesso di evitare che le tensioni politiche e sociali derivanti da licenziamenti di massa si sommassero a quelle provocate dalle restrizioni connesse alle misure anti-COVID, ponendo a rischio la stabilità del potere borghese e i piani di ristrutturazione capitalistica. Lo Stato borghese ha, cioè, agito come “capitalista collettivo”, salvaguardando l’interesse politico dei capitalisti come classe piuttosto che l’interesse economico immediato dei singoli padroni. Per contro, il padronato ha ampiamente utilizzato le pieghe della legislazione decretale per ridurre comunque la forza lavoro impiegata, espellendo quasi un milione di lavoratori dall’inizio della pandemia ad oggi con vari stratagemmi, dalla “giusta causa” per motivi disciplinari o per comportamento antiaziendale al mancato rinnovo dei contratti a tempo determinato.
La rimozione del blocco dei licenziamenti rappresenta un ulteriore passo avanti nel processo di ristrutturazione capitalistica, teso a risollevare il saggio di profitto attraverso un incremento della produttività e dell’intensità del lavoro, cioè dello sfruttamento.
Oltre all’aspetto congiunturale, cioè all’impatto immediato e diretto sui livelli occupazionali, che sarà diverso da settore a settore e da azienda ad azienda, stimato ottimisticamente in un’ulteriore perdita di circa 600.000 “unità lavorative”, vi è un aspetto strutturale che non deve essere ignorato.
Nelle condizioni date, la rimozione incondizionata del blocco dei licenziamenti inciderà anche qualitativamente sulla sostanza dei rapporti in essere sul mercato del lavoro, favorendo la sostituzione della forza lavoro a tempo indeterminato, con livelli salariali più alti e con maggiori tutele, con forza lavoro a tempo determinato, con livelli salariali più bassi e con tutele ormai pressoché nulle. In sostanza, la diminuzione dell’occupazione che ne deriverà, oltre ad avere un effetto calmierante sulla contrattazione salariale, oltre a rischiare di dividere i lavoratori, contrapponendo quelli con contratti a tempo indeterminato a quelli con contratti a termine, contribuirà a produrre una maggiore flessibilizzazione e precarizzazione del mercato del lavoro, un rafforzamento del potere contrattuale dei padroni e una riduzione del costo del lavoro attraverso l’aumento dello sfruttamento. Nella stessa direzione di sostituzione della forza lavoro, di aumento della precarietà e della flessibilità del rapporto lavorativo, di destrutturazione dei contratti collettivi e di riduzione del costo del lavoro vanno anche la riforma della Pubblica Amministrazione e la politica di gestione della sanità pubblica.
La possibilità di utilizzare, in alternativa al licenziamento, la cassa integrazione ordinaria, oltre a quella straordinaria per COVID, l’abolizione del contributo addizionale a carico delle aziende (Confindustria pretende addirittura l’abolizione del contributo ordinario, la cancellazione dei vincoli causali in caso di mancato rinnovo dei contratti a termine e un maggiore utilizzo dei contratti di “apprendistato professionalizzante”), l’istituzione dei cosiddetti “contratti d’espansione”, la loro estensione anche alle PMI, con costi a carico del bilancio statale, la reiterata richiesta di maggiori sostegni pubblici alla liquidità delle aziende, insieme ad altre misure contenute nel PNRR, nei vari decreti governativi e nelle Direttive della Commissione Europea, indicano con chiarezza lampante l’intenzione dei padroni di attuare la ristrutturazione capitalistica a costo zero per loro, scaricandone tutto il peso sulle spalle dei lavoratori. La coincidenza, facilmente prevedibile, tra le richieste di Confindustria e quelle dell’UE in materia di riforme antipopolari dimostra come si tratti di piani che vengono portati avanti in coordinata sintonia dall’Unione Europea e dai suoi organi nell’interesse del capitale monopolistico europeo nel suo complesso in funzione di complementarietà con gli Stati borghesi nazionali.
Costruire una risposta a queste politiche è una necessità per non arretrare ulteriormente. La classe borghese e tutte le forze parlamentari sono concordi nell’utilizzare la crisi pandemica per ridurre i diritti dei lavoratori, comprimere i salari e aumentare lo sfruttamento. All’unità degli sfruttatori dobbiamo contrapporre la mobilitazione e l’unità dei lavoratori. Il Fronte Comunista si pone in prima linea nella costruzione di una risposta alle politiche di attacco del governo con l’obiettivo elevato di contribuire allo sviluppo dello scontro di classe attraverso la mobilitazione unitaria dei lavoratori, al di là delle appartenenze sindacali, dei settori e delle categorie, utilizzando ogni strumento possibile, a tutti i livelli, dalla micro-conflittualità in ogni azienda fino allo sciopero generale, costruendo coscienza di classe e consapevolezza sull’irriformabilità del sistema economico capitalistico e della necessità del suo abbattimento nella direzione della costruzione di una società socialista. Lo sblocco dei licenziamenti non deve passare senza incontrare resistenza, ma dovrà vedere la risposta organizzata dei settori più avanzati dei lavoratori, che si ponga l’obiettivo di superare l’attuale frammentazione e l’aperta collaborazione dei sindacati istituzionali con il nemico di classe. Per questi motivi anche il Fronte Comunista sarà in piazza e sosterrà la manifestazione nazionale del 19 giugno a Roma.
FRONTE COMUNISTA
L’Ufficio Politico del Comitato Centrale