Si svolge oggi a Catanzaro una manifestazione per denunciare quella che viene definita “l’odissea delle vittime in divisa”, promossa dalla Federazione Sindacale di Polizia insieme al Nuovo Sindacato Carabinieri. Un evento a dir poco provocatorio, nel ventennale dei fatti del G8 di Genova, per ribadire che, citando testualmente Giuseppe Brugnano, segretario nazionale di FSP, «le vittime, allora, furono due: il giovane Carlo Giuliani e Mario Placanica che dopo quegli eventi tragici ha perso la sua serenità». Il convegno nazionale affronterà il tema delle “vittime predestinate degli atti dovuti e delle gogne mediatiche e giudiziarie”, così come affermano i promotori. Non si tratta di un convegno di nicchia promosso da “addetti ai lavori”: ad esso partecipano il Presidente della regione Calabria Nino Spirlì, il candidato alla presidenza della Regione, Roberto Occhiuto, la deputata di Fratelli d’Italia Wanda Ferro e il sindaco di Catanzaro Sergio Abramo. Il tutto ha natura istituzionale.
Al di là del carattere dell’appuntamento, che mira in maniera evidente a generare una reazione risentita e a suscitare irritazione negli ambienti, così detti, antagonisti, la narrativa che si sceglie di portare avanti con l’avallo dell’intero arco delle personalità istituzionali del luogo è sintomo di due indirizzi che hanno da sempre dominato la gestione dell’ordine pubblico nella Repubblica e che negli ultimi tempi hanno visto un consolidamento.
Il primo è l’interpretazione del concetto stesso di “ordine” come coincidente con quello di mera repressione e contenimento brutale. Esso è stato alla radice della gestione disastrosa e violenta del G8 di Genova, con il trattamento subito da chi era all’interno della scuola Diaz considerato dalla corte di Strasburgo come atto di tortura. Continua ad essere l’origine degli abusi su minoranze, detenuti e lavoratori conflittuali che stanno caratterizzando le cronache italiane negli ultimi mesi. Le violenze di Santa Maria Capua Vetere, il lancio di fumogeni ad altezza uomo alla Tnt di Piacenza a febbraio, il caso di police brutality avvenuto a Milano contro alcuni ragazzi di colore tranquillamente seduti a fare colazione sono solo alcuni dei sintomi di questa impostazione politica.
Un altro sintomo è l’approvazione molto tarda di una legge che codifichi la nozione di “tortura”, in violazione dell’obbligo derivante dalla convenzione Onu che la imponeva dal 1984. Il testo definitivo della legge promulgata nel luglio 2017, soprattutto, è quasi inutilizzabile nei confronti degli abusi in divisa per via dell’enorme compromesso imposto apertamente dai vertici delle stesse forze di polizia, che paventavano la paralisi della loro azione: la formulazione del reato, notoriamente, viene limitata ai soli comportamenti ripetuti nel tempo.
Il secondo indirizzo, legato al primo, è lo scegliere di considerare sic et simpliciter ogni contestazione e disagio sociale come un problema di ordine pubblico. Questo dà luogo non solo agli atti repressivi più noti agli organi di stampa ma, anche, ad episodi di continua pressione e continuo boicottaggio di proteste sociali anche limitate nel tempo e nello spazio. Sono molti i casi, nella sola Calabria (regione totalmente priva dei livelli essenziali di assistenza sanitari), di tentativi di repressione di attività politica o manifestazioni attraverso sanzioni collettive pretestuose, o addirittura attraverso apertura di indagini a carico di militanti colpevoli di aver effettuato volantinaggi senza opportuni avvisi alla questura locale.
Espressione di questo indirizzo sono la connivenza delle forze dell’ordine con la violenza delle guardie private contro gli operai Textprint e TNT-Fedex i mesi scorsi, episodi di collusione e mancanza di intervento che hanno portato al così detto “incidente” che ha causato la morte del sindacalista Adil Belakhdim.
Espressione di questo indirizzo sono anche i decreti Sicurezza promulgati durante il governo Conte 1 e non ancora revisionati nella loro parte più repressiva.
Un’impostazione del genere, che intenzionalmente nasconde la questione dei rapporti di forza che è all’origine sia del disagio sociale che della gestione della sicurezza, è la sola che può giustificare un evento fondato sulla dicotomia tra “agenti che fanno rispettare la legge attraverso atti dovuti” da un lato e caos e gogna mediatica dall’altro.
Questa impostazione è la sola che giustifica affermazioni degli agenti di polizia come “lo Stato siamo noi”, durante la mattanza di Santa Maria Capua Vetere.
La stessa impostazione è aggressivamente supportata sia dalle forze, così dette, “securitarie” che da quelle che si definiscono progressiste e libertarie e mira a celare il carattere di classe della repressione statale, per la quale legittimare e celebrare i “doveri” degli agenti coincide col delegittimare qualsiasi opposizione materiale nei luoghi di produzione (delle merci e del consenso) alla violenza del capitale verso la classe lavoratrice e le classi popolari.