A oltre un mese e mezzo dal ritorno al potere dei Talebani e dal ritiro delle truppe d’occupazione USA e NATO, la propaganda imperialista continua a mistificare la realtà degli eventi e delle loro cause, versando lacrime di coccodrillo sui diritti umani, in particolare delle donne afghane, nel tentativo di dare una legittimazione all’invasione dell’Afghanistan del 2001.
La propaganda imperialista, attraverso l’ipocrita retorica sui diritti umani, cerca di far dimenticare all’opinione pubblica mondiale che furono proprio gli USA e la NATO, insieme a un’eterogenea santa alleanza che comprendeva Pakistan e Arabia Saudita, ma anche Israele e Cina, a promuovere la sovversione dell’unico, vero tentativo, avviato dalla Repubblica Democratica Popolare dell’Afghanistan, nata dalla Rivoluzione d’Aprile del 1978 e sostenuta dall’Unione Sovietica, di sollevare il paese dall’abisso di miseria e secolare arretratezza economica e sociale.
In applicazione della “dottrina Brzezinski”, gli imperialisti e i loro alleati avviarono l’operazione Cyclone, iniziando ad armare, finanziare e addestrare le bande dei mujaheddin in funzione controrivoluzionaria ben prima dell’intervento sovietico, rendendolo inevitabile volutamente, con l’intento di destabilizzare economicamente la stessa Unione Sovietica.
L’intervento dell’URSS, su richiesta del governo afghano ai sensi del Trattato di Cooperazione allora in essere tra i due paesi e in difesa delle conquiste sociali della Rivoluzione d’Aprile, fu un atto dovuto – di fronte ad una vera e propria guerra non dichiarata che l’imperialismo conduceva per procura contro la RDPA -, del quale, oggi come ieri, rivendichiamo la piena legittimità.
Finanziando e armando le bande controrivoluzionarie dei mujaheddin, tra cui gli “Arab fighters” di Al-Qaeda, gli imperialisti USA e i loro alleati hanno creato la base materiale per il rafforzamento di forze radicalmente reazionarie e oscurantiste, come i Talebani. Di fatto, l’imperialismo è responsabile della nascita e dello sviluppo del terrorismo fondamentalista e del fascismo islamico.
Gli eventi di oggi traggono, dunque, origine dall’aggressione imperialista all’Afghanistan democratico-popolare del 1979, un atto che ha fatto precipitare il paese, per oltre 40 anni, in uno stato di guerra permanente, per altro non ancora terminato e in un’occupazione straniera durata 20 anni, imponendo indicibili sofferenze al popolo afghano.
Dopo il disimpegno dell’Armata Rossa deciso dal liquidatore Gorbačev nel 1989, la caduta del governo democratico-popolare nel 1992 e la proclamazione della Repubblica Islamica, l’Afghanistan sprofondò in una guerra civile per il potere, combattuta tra fazioni mujaheddin in precedenza alleate non solo per una loro comune natura reazionaria e antisovietica, ma anche in forza dei lauti finanziamenti da parte degli imperialisti, che contribuirono ad accrescere le fortune personali dei “signori della guerra” e a seminare il germe della corruzione in politica che caratterizzerà tutti i futuri governi afghani filo-imperialisti.
È in questa situazione di guerra civile che i Talebani, addestrati da istruttori della CIA e dei servizi segreti pakistani, nel periodo tra il 1994 e il 1996 riescono a raccogliere il consenso innegabile della parte più arretrata della popolazione, soprattutto di quella rurale, ancorata a un’organizzazione sociale arcaica e tribale, che, prostrata dalla guerra, vedeva in essi una formazione politico-militare in grado di garantire la pacificazione del paese attraverso l’imposizione di un ordine rigidamente teocratico e oppressivo, ma ritenuto preferibile al caos e alla guerra.
L’ascesa dei Talebani al potere venne in un primo momento sostenuta dagli imperialisti americani ed europei, che dal 1992 avevano sospeso gli aiuti militari alle fazioni mujaheddin in lotta tra loro, perché gli “studenti coranici” sembravano poter assicurare la stabilità necessaria ai monopoli dei paesi imperialisti per garantire la profittabilità dei capitali che avrebbero investito nella regione centro-asiatica.
Infatti, oltre alle ben note finalità geostrategiche della “dottrina Brzezinski”, gli USA e i loro alleati europei e asiatici avevano precisi interessi economici, diretti allo sfruttamento delle immense risorse di idrocarburi presenti nella regione. Dopo la dissoluzione dell’URSS, prese corpo, nel 1995, il progetto di un oleodotto/gasdotto transafghano che collegasse i giacimenti del Turkmenistan con i porti pakistani dell’Oceano Indiano. Lo scopo era molteplice: 1) dirottare petrolio e gas dalle forniture al mercato russo e a quello cinese per creare fenomeni di scarsità energetica in quelle economie, ostacolarne lo sviluppo e acquisire vantaggi competitivi; 2) ridurre la dipendenza europea dalle forniture russe attraverso un’offerta alternativa; 3) riportare risorse energetiche stimate in ¼ delle riserve mondiali sotto il diretto controllo delle borse occidentali per gestirne i prezzi; 4) garantire continuità e sicurezza delle forniture bypassando, nel modo più economico possibile, l’Iran e il Golfo Persico, il primo in quanto paese considerato ostile e il secondo in quanto possibile scenario di guerra. Con queste finalità, nel 1995 nacque il consorzio multinazionale CENTGAS, di cui l’americana UNOCAL deteneva il pacchetto di maggioranza e al quale partecipavano monopoli sauditi, coreani, giapponesi e pakistani.
Da allora fino a oggi, lo sfruttamento delle risorse energetiche centro-asiatiche e il progetto di costruzione dell’oleodotto/gasdotto transafghano sono stati il fulcro della politica degli imperialisti USA e dei loro alleati, europei e non, in relazione all’Afghanistan. Questi interessi economici dei monopoli capitalistici del settore energetico e dei servizi connessi sono il principale motivo sia della prima ascesa al potere dei Talebani nel 1996, inizialmente favorita dagli imperialisti, sia della loro caduta in disgrazia, sia del loro nuovo reinsediamento al potere, nella ricerca, da parte degli imperialisti, di una stabilizzazione del paese che consenta loro di realizzare i propri piani di sfruttamento economico.
È del tutto evidente che il potere non è mai stato conquistato autonomamente dai Talebani, ma è stato loro consegnato nel 1996, tolto nel 2001 e poi nuovamente restituito nel 2021 dagli USA, dalla NATO e dalle altre potenze imperialiste coinvolte.
Infatti, le relazioni tra gli USA e i Talebani degenerano in conflitto, dapprima latente e poi aperto, a partire dal 1997, sostanzialmente per due ragioni, entrambe squisitamente economiche: 1) l’atteggiamento temporeggiatore dei Talebani, riluttanti ad accettare le condizioni del consorzio CENTGAS, meno convenienti rispetto a quelle proposte dal concorrente monopolio argentino BRIDAS per la costruzione di un analogo oleodotto transafghano; 2) il crollo del prezzo del petrolio del 1998, che determina l’uscita di UNOCAL dal consorzio CENTGAS e il rinvio della realizzazione del progetto a una congiuntura più conveniente. È noto che la CIA fin dal 1997 conduceva operazioni sotto copertura nel sud dell’Afghanistan, così come nel nord sosteneva la cosiddetta Alleanza del Nord, la cui vera denominazione era Fronte Islamico per la Salvezza dell’Afghanistan, non meno reazionaria e antipopolare dei Talebani, con lo scopo di sovvertire l’ordinamento dell’Emirato Islamico.
Dal 1997 si assiste a un’escalation di pressioni e minacce contro i Talebani, esercitate dagli Stati Uniti, che, al di là delle solite chiacchiere ufficiali su diritti umani, democrazia e terrorismo, hanno come vera motivazione la questione dell’oleodotto transafghano – un progetto mai abbandonato, ma solo rinviato-, con l’intento almeno di impedirne la realizzazione da parte dei concorrenti.
Gli USA, dunque, stavano preparando un intervento militare diretto già prima dell’attentato alle Torri Gemelle del 11 settembre 2001. Del resto, sarebbe stato impossibile preparare un’invasione militare come quella dell’ottobre 2001 in sole tre settimane.
Serviva un pretesto e gli USA lo trovarono nella “lotta al terrorismo”, un terrorismo che l’imperialismo stesso aveva creato e alimentato sia direttamente, con il sostegno militare e i finanziamenti, sia indirettamente, con una politica di rapina e sfruttamento delle risorse umane e materiali, invisa ai popoli, che faceva guadagnare consenso alle posizioni delle formazioni terroristiche. Gli attentati dell’agosto 1998 contro le ambasciate statunitensi in Kenya e Tanzania, attribuite ad Al-Qaeda senza alcuna prova, servirono, nell’ottobre dello stesso anno, a “legittimare” i bombardamenti americani delle presunte basi logistiche di Al-Qaeda in Afghanistan. Si trattava, in realtà, di un pesante avvertimento al governo talebano. Da quel momento, la “lotta al terrorismo”, la caccia a Osama Bin Laden e il rifiuto dei Talebani di consegnarlo alla giustizia sommaria a stelle e strisce serviranno a giustificare la preparazione dell’invasione del 2001 nell’ambito di un’operazione su vasta scala e su più scacchieri, denominata “Enduring Freedom”. Inizialmente concepita come risposta unilaterale degli USA agli attentati del 11 settembre, sarà quasi subito integrata dall’intervento della NATO e dei paesi alleati e trasformata in missione ISAF (International Security Assistance Force), alla quale seguirà, nel 2015, l’operazione NATO “Resolute Support”, in un quadro di progressivo disimpegno e riduzione degli effettivi.
Ufficialmente, il sanguinoso attacco terroristico del 11 settembre 2001 servì da motivo scatenante dell’invasione e della successiva ventennale occupazione dell’Afghanistan che gli USA stavano pianificando da lungo tempo. Ufficialmente, come nel caso della Jugoslavia, dell’Iraq, della Libia e della Siria, la “difesa dei diritti dell’uomo”, il “ristabilimento della democrazia e della libertà” e la “lotta alla minaccia terroristica” sono stati i pretesti con cui la propaganda imperialista ha imbonito per anni l’opinione pubblica mondiale, cercando di legittimare un arbitrario atto di forza, determinato non da intenti umanitari, ma da ben precisi interessi geo-strategici ed economici, perseguiti sulla pelle del popolo afghano, ma anche di quello americano, che ne ha dovuto pagare gli esorbitanti costi.
È del tutto finto lo stupore, espresso nelle dichiarazioni ufficiali da entrambe le parti dell’Atlantico, per la rapidità con cui l’esercito e il governo fantoccio della Repubblica Islamica si sarebbero dissolti di fronte all’avanzata talebana. In realtà, ancora una volta, il potere è stato volutamente riconsegnato ai Talebani con un’operazione concordata di restaurazione, negoziata almeno dal 2014 e culminata negli accordi di Doha del 2020 tra i Talebani e l’amministrazione Trump, rappresentata, non a caso, dall’immarcescibile Zalmay Khalilzad, già ambasciatore in Afghanistan, poi in Iraq, poi all’ONU, consigliere del Centro Studi Strategici Internazionali, ma, soprattutto, ex-dirigente dell’UNOCAL e presidente della Gryphon Partners and Khalilzad Associated, una influente società di consulenza commerciale internazionale: un personaggio che incarna perfettamente l’intreccio tra affari e politica negli Stati Uniti.
Gli accordi di Doha hanno previsto e regolamentato, con reciproche garanzie, il ritiro delle forze militari d’occupazione, sia degli USA che della NATO, ma non dell’intelligence e dello spionaggio americani, che continueranno ad operare nell’Emirato Islamico con il beneplacito dei Talebani.
Benché i negoziati siano stati condotti unilateralmente dagli USA – una consuetudine della quale nessuno ormai dovrebbe più stupirsi, visti i numerosi precedenti -, nell’esclusivo loro interesse e senza coinvolgere gli alleati europei, è difficile credere che questi non siano stati informati delle modalità del ritiro, concordate in sede di trattative. Ne è prova l’operatività con cui sono stati attuati il ponte aereo e il piano di evacuazione di militari, diplomatici e personale afghano compromesso nella collaborazione con gli occupanti.
Riteniamo che non sia condivisibile la posizione di chi vede in questi sviluppi una sconfitta dell’imperialismo, paragonabile alla fuga americana da Saigon nel 1975.
In primo luogo, a Doha sono state concordate sia le modalità e le condizioni della restaurazione al potere, sia quelle del ritiro delle forze d’occupazione, senza una sconfitta militare di nessuna delle parti in conflitto. Durante l’occupazione si era stabilito, piuttosto, un pluralismo di potere, per cui i Talebani controllavano le zone rurali, soprattutto nel sud, le milizie di Massoud alcuni territori del Nord, USA, NATO e il corrotto governo fantoccio della Repubblica Islamica le principali città. I Talebani, quindi, non sono mai stati spazzati via, ma hanno continuato a governare buona parte del territorio.
In secondo luogo, nel 1975 in Vietnam, con la liberazione di Saigon, si compiva la vittoria di un popolo intero contro l’invasore americano e contro il governo marionetta che con questo collaborava, in una situazione di rapporti di forza internazionali completamente differente da quella attuale. Non si può dire la stessa cosa dell’Afghanistan, dove la restaurazione dei Talebani al potere non può certo definirsi una vittoria del popolo afghano. All’oppressione degli occupanti imperialisti si è sostituita l’oppressione da parte di una forza antipopolare, reazionaria e oscurantista. A una dittatura che cercava di riprodurre e imporre le forme di un inapplicabile modello politico-istituzionale di tipo occidentale, con tutte le sue storture e ingiustizie, è subentrata una dittatura teocratica di tipo arcaico, con altre storture e ingiustizie, non per conquista del potere, ma per passaggio concordato di consegne – non ci stanchiamo di ripeterlo. L’unico, vero sconfitto è, ancora una volta, il popolo afghano.
In terzo luogo, infine, l’imperialismo non può essere identificato, in modo riduttivo e parziale, con una forma di politica estera fondata sull’aggressione e sul militarismo. L’imperialismo è uno stadio, storicamente determinato, dello sviluppo dei rapporti di produzione capitalistici, cioè una realtà ben più complessa che non può essere ridotta ad una delle possibili manifestazioni della sua politica estera. I recenti eventi in Afghanistan non hanno significato né una sconfitta, né un arretramento dell’imperialismo occidentale, ma hanno determinato soltanto una ridefinizione tattica, mantenendone invariata sostanza e strategia.
È fallita, dunque, quella tattica imperialista che cercava di tutelare gli interessi monopolistici attraverso “l’esportazione della democrazia” a colpi di bombe e con l’imposizione di governi compiacenti, invisi al popolo, perché corrotti e percepiti come marionette dell’invasore, ma altrettanto non si può dire del disegno strategico dell’imperialismo USA. Gli Stati Uniti, infatti, si sono posti in una posizione win-win: il disimpegno da una situazione difficilmente sostenibile sia sul piano economico, sia su quello del consenso interno, può risolversi o nel mantenimento di proficui rapporti d’affari con i Talebani che garantirebbero la tutela degli interessi monopolistici, oppure può degenerare in una nuova situazione di instabilità e caos, che, però, impedirebbe ai monopoli e agli stati imperialisti concorrenti di realizzare i propri piani. Scenari entrambi non negativi per gli USA.
Al centro della strategia imperialista americana, come sempre, rimane la questione dello sfruttamento delle risorse energetiche dell’Asia Centrale e di assicurarne il trasporto verso occidente nel modo più sicuro ed economico. Ritorna così all’ordine del giorno la questione dell’oleodotto/gasdotto transcaucasico. Il nuovo progetto TAPI (dalle iniziali degli stati coinvolti, cioè Turkmenistan, Afghanistan, Pakistan e India) riprende, con lievi modifiche, il precedente progetto CENTGAS e ne mantiene la valenza strategica sia per l’imperialismo euro-atlantico, sia per l’Emirato Islamico dell’Afghanistan. Il “piatto” della partita è ulteriormente arricchito dalla abbondanza in Afghanistan di litio e terre rare, materie prime strategiche utilizzate nella produzione di accumulatori, batterie e semiconduttori – componenti indispensabili per la “transizione energetica”, la robotica e le comunicazioni -, delle quali la Cina detiene in assoluto le maggiori quote di mercato. È, quindi, molto verosimile che l’Afghanistan continuerà ad essere un terreno cruciale della competizione tra i principali centri imperialisti. Al di là della demagogia sulla democrazia e sui diritti violati, è già in atto un processo di “corteggiamento” del nuovo governo talebano da parte delle diplomazie delle maggiori potenze imperialiste, ma nessuno può escludere che in futuro la via diplomatica lasci nuovamente il passo all’opzione militare.
La questione dei diritti umani, dei diritti delle donne, della democrazia non ha alcuna rilevanza per gli imperialisti di ogni latitudine di fronte agli enormi interessi economici e geo-strategici in gioco, diventando un mero argomento di propaganda demagogica e ipocrita. Non vediamo una grande differenza tra i crimini, ugualmente esecrabili, dei Talebani, quelli dei “signori della guerra” che a loro si oppongono e quelli degli “esportatori di democrazia” degli USA, dell’UE e della NATO, né tra le “bombe umanitarie” degli imperialisti occidentali e gli ordigni del terrorismo fondamentalista islamico, se non per il maggior bilancio di vittime e le maggiori devastazioni che il terrorismo di stato e le aggressioni imperialiste provocano.
Denunciamo la propaganda fuorviante e ipocrita che i media borghesi conducono sul tema dei diritti, fingendo di dimenticare che gli obblighi relativi all’abbigliamento femminile e le limitazioni all’accesso all’istruzione furono introdotti nel 1992 da Gulbuddin Hekmatyar e Burhanuddin Rabbani, rispettivamente primo ministro e presidente della Repubblica Islamica, voluta e appoggiata dagli USA, che la shariat (legge coranica) fu inserita nella costituzione dell’Afghanistan nello stesso anno, ben prima dell’avvento dei Talebani al potere, che tali opprimenti restrizioni vigono anche in Arabia Saudita, tradizionale alleato degli Stati Uniti, senza che nessuno abbia mai pensato di “esportare democrazia” in quel paese, né nel Pakistan, altro alleato degli USA, che certo non brilla per il rispetto dei diritti delle donne. Una propaganda che, soprattutto, nasconde che ciò che garantisce la libertà effettiva delle donne è l’indipendenza economica, cioè il loro diritto al lavoro, un diritto primario che il capitalismo non garantisce neppure nei paesi economicamente più sviluppati. L’oppressione di genere, inasprita dai Talebani senza essere una loro invenzione e le particolari forme che in Afghanistan assume l’oppressione di classe sono espressione di un capitalismo che convive con atavici rapporti sociali ed economici precapitalistici, arcaici e tribali, sopravvissuti, senza essere stati minimamente messi in discussione, attraverso tutti i diversi assetti politici che si sono succeduti, dalla monarchia alla repubblica, dalla prima Repubblica Islamica al primo Emirato talebano, dalla seconda Repubblica Islamica post-invasione all’attuale secondo Emirato, con la sola eccezione della breve esperienza della Repubblica Democratica Popolare, che aveva avviato un processo di emancipazione di classe e di genere, stroncato dalla controrivoluzione dei mujaheddin dall’interno e dall’intervento imperialista dall’esterno. Separare, restringendola ai soli aspetti formali, la questione dell’affermazione dei diritti, delle donne come degli uomini, dalla questione dell’abbattimento dei rapporti economico-sociali che generano l’oppressione di classe e di genere, significa fare vuota demagogia propagandistica. Non ha molto senso sancire sulla carta, ad esempio, il diritto delle donne all’istruzione se non si creano le condizioni sociali e materiali per il suo esercizio effettivo.
La narrazione della propaganda imperialista, che dipinge i venti anni d’occupazione da parte delle forze USA e NATO come un periodo di affermazione dei diritti, della libertà e della civiltà in contrapposizione alla barbarie talebana, è del tutto falsa. In realtà, il prolungato stato di guerra e l’occupazione hanno lasciato un bilancio disastroso sia in termini di vite umane, vittime dei bombardamenti e delle atrocità tanto delle milizie che delle truppe d’occupazione, sia sul piano economico e sociale. L’Afghanistan è oggi uno dei paesi più poveri al mondo, sull’orlo della fame, la cui economia, di fatto, si regge solo sul commercio dell’oppio e dei suoi derivati, la cui produzione è aumentata vertiginosamente dopo l’invasione imperialista sotto i corrotti governi fantoccio di Hamid Karzai e Ashraf Ghani. Le reti televisive occidentali hanno mostrato le immagini drammatiche della folla all’aeroporto di Kabul alla ricerca disperata di un passaggio aereo, descrivendo quanto stava accadendo come una fuga di massa dal terrore talebano. Quelle persone, in realtà, fuggivano dalla guerra e dalla miseria, come cercavano di fare anche prima della restaurazione al potere dei Talebani, come testimoniano i dati sui flussi migratori di provenienza afghana. Il ponte aereo, oltre ai diplomatici e ai militari dei paesi occupanti, ha evacuato esclusivamente gli afghani compromessi dalla collaborazione con le truppe d’occupazione. Mentre nei media borghesi sale il tono della retorica umanitaria sull’accoglienza, la verità è che né gli USA, né l’UE intendono dare asilo a chi fugge da una situazione di povertà e disperazione che essi stessi hanno creato con l’invasione e l’occupazione militare. Le diplomazie occidentali si sono messe prontamente al lavoro per scaricare il peso dell’emigrazione afghana sui paesi limitrofi, nella logica ipocrita e reazionaria, sintetizzata dall’espressione “aiutiamoli a casa loro”, che, tradotta, significa “abbiamo distrutto il loro paese, ma qui non li vogliamo”. Una logica che condanniamo senza appello insieme al doppio standard che gli imperialisti occidentali applicano all’emigrazione afghana, per cui chi ha collaborato con le forze d’occupazione viene accolto, mentre vengono respinte le vittime della guerra imperialista che, via terra o via mare, cercano rifugio in Europa. A questi ultimi deve essere garantito asilo in tempi rapidi e assicurata un’esistenza dignitosa in condizioni adeguate dal punto di vista lavorativo, abitativo, scolastico e sanitario
La fine dell’occupazione imperialista in Afghanistan non è né la conclusione del conflitto afghano e delle sofferenze di quel popolo, né tanto meno la rinuncia da parte degli imperialisti all’uso delle forza e della guerra. Gli USA stanno riposizionando le proprie forze armate su altri scacchieri, mentre l’UE intende creare un esercito comune europeo, complementare alla NATO, ma autonomo. È la stizzita risposta dell’imperialismo europeo alla marginalizzazione subita nella vicenda afghana ad opera degli americani.
Mentre servono lavoro per tutti, salari e pensioni decenti, sanità pubblica e servizi sociali gratuiti, istruzione gratuita, reale diritto all’abitazione, la borghesia imperialista europea incrementa la corsa al riarmo e aumenta le spese per potenziare l’apparato militare e poliziesco. Il Fronte Comunista si oppone fermamente alla creazione di una forza militare europea, che prelude a nuove avventure belliche con ulteriori, ingenti, costi a carico dei lavoratori e rischia di trascinare l’Italia in conflitti armati ai danni dei nostri fratelli di classe e dei popoli di altri paesi. È assolutamente necessario sviluppare una forte mobilitazione che non solo si opponga al progetto di esercito europeo, ma esiga anche la fuoriuscita dell’Italia dalla NATO e la chiusura di tutte le basi americane sul nostro territorio.
Il Fronte Comunista esprime solidarietà ai proletari e al popolo afghano, nella ferma convinzione che essi sapranno trovare la forza per vincere la barbarie imperialista e quella talebana, le ingerenze esterne e la reazione oscurantista interna, affrancandosi dalla guerra e dalla povertà e riprendendo il percorso delle trasformazioni rivoluzionarie in senso socialista interrotto dall’ingerenza imperialista oltre 40 anni fa.