Natura imperialista della guerra in Ucraina
La posizione del Fronte Comunista in merito alla guerra attualmente in corso in Ucraina è stata fin da subito chiara e inequivocabile. La sua sostanza si rispecchia pienamente nelle posizioni espresse dal Comunicato Congiunto dei Partiti Comunisti e Operai del 3 marzo 2022, che abbiamo convintamente cofirmato insieme ad altri 43 partiti esteri fratelli e a 30 organizzazioni giovanili comuniste.
Affermiamo senza tema di smentita che che tutti i conflitti armati sul territorio dell’ex Unione Sovietica (Cecenia, Nagorno-Karabakh, Tagikistan, Transdnistria, Abkhazia, Ossezia del Sud, Donbass e Ucraina) sono una diretta conseguenza lungo processo di controrivoluzione che ha liquidato il socialismo e che ha condotto, infine, allo scioglimento dell’URSS. L’incontrastato dominio mondiale, così restaurato, dell’imperialismo ha determinato un’acutizzazione della competizione interimperialista all’interno di un unico sistema mondiale, dove nuove potenze e blocchi imperialisti emergenti contendono l’egemonia politica, militare, finanziaria e monetaria degli Stati Uniti in un’aspra lotta per il controllo dei mercati di sbocco, delle fonti energetiche e di materie prime, delle rotte commerciali, dei dati e dell’informazione, in una situazione per molti versi simile a quella precedente la Prima Guerra Mondiale. In condizioni di imperialismo, il “multipolarismo”, propagandato soprattutto da Russia e Cina, nasconde in realtà la rivendicazione da parte delle potenze emergenti di una nuova spartizione del mondo che assicuri loro una posizione corrispondente al loro reale peso economico, politico e militare. All’inizio del XX secolo le analoghe pretese di Germania, Giappone e Stati Uniti nei confronti degli imperi coloniali furono la causa scatenante della Prima Guerra Mondiale, come giustamente analizzò Lenin.
La propaganda borghese ha cercato di farci credere che, con la scomparsa dell’URSS e la fine della guerra fredda, che il capitalismo aveva voluto e imposto, l’umanità si sarebbe avviata verso un futuro di prosperità, libertà e pace attraverso quell’ulteriore spinta all’internazionalizzazione del capitale che hanno chiamato “globalizzazione”. La realtà ha ben presto provveduto a smentirla. Nei tre decenni trascorsi dalla vittoria della controrivoluzione in URSS, in tutto il mondo sono aumentate in modo esponenziale povertà e malattie, diseguaglianze e disagio sociale, anche nei paesi economicamente più sviluppati; ovunque assistiamo a involuzioni autoritarie e reazionarie degli stati borghesi che riducono gli spazi democratici politico-sindacali e inaspriscono la repressione antioperaia da parte di polizia e magistratura; si sono moltiplicati i conflitti armati, dall’Iraq all’Afghanistan, dalla Jugoslavia alla Libia, dalla Siria allo Yemen, fino all’odierna guerra in Ucraina, mentre nell’area indo-pacifica, già a rischio di conflitto a causa dell’irrisolta questione della riunificazione coreana, aumenta la tensione tra Cina e USA in relazione allo status di Taiwan, tra Cina e Giappone per le isole Diao Yu, su cui entrambi i paesi rivendicano la sovranità, tra Cina, Vietnam e Filippine per la disputa sul diritto di sfruttamento della piattaforma continentale; persino nell’area mediterranea e tra paesi appartenenti alla NATO si manifestano pericolose tensioni, come quelle tra Grecia e Turchia, a un passo dallo scontro militare in relazione sia all’illegittima occupazione di Cipro Nord da parte di quest’ultima, sia alla definizione e ai diritti di sfruttamento delle risorse della zona economica esclusiva di Cipro, sia alla contesa sulle acque territoriali e sulla sovranità su alcune isole nel Mar Egeo; la sopravvivenza stessa del nostro pianeta è messa a rischio dallo sfruttamento capitalistico, eccessivo e non pianificato, delle risorse naturali. In sostanza, le insanabili contraddizioni del capitalismo nella sua fase finale fanno rimbalzare il sistema imperialista mondiale da una crisi all’altra e da una guerra all’altra.
Esiste un preciso nesso dialettico tra crisi economica e guerra in condizioni di capitalismo. Come insegnava Lenin, “La guerra non è una contraddizione con i fondamenti della proprietà privata, ma uno sviluppo diretto e inevitabile di questi fondamenti“[1]. In condizioni di capitalismo, la concorrenza e l’anarchia della produzione generano antagonismi anche all’interno di una stessa classe. Nella fase imperialista del capitalismo, la concorrenza muta nelle forme, ma si inasprisce nella sostanza, poiché alla concorrenza tra singoli capitalisti si aggiunge la concorrenza tra aggregazioni economiche di capitalisti, come i monopoli, tra aggregazioni politiche di capitalisti, come gli stati e tra blocchi e alleanze di stati capitalistici, come l’UE o i BRICS.
Parafrasando von Klausewitz, possiamo dire che la guerra è la continuazione della concorrenza con mezzi violenti. La guerra è intrinseca e necessaria al capitalismo, perché, distruggendo in tutto o in parte il capitale sovraccumulato, arresta temporaneamente la caduta del saggio di profitto e riavvia così il ciclo della riproduzione del capitale, rendendo nuovamente redditizi gli investimenti in generale e, in particolare, quelli nella ricostruzione della devastazione provocata. In altre parole, la guerra non è causa della crisi, bensì è una delle vie del capitalismo per tentare di uscirne, come la storia conferma: la grande depressione del 1873-1895 termina con la Prima Guerra Mondiale, quella del 1929-1932 con la Seconda Guerra Mondiale. Con la guerra il capitalismo ottiene quella parziale distruzione di forze produttive che gli consente di riavviare il ciclo di riproduzione del capitale. Bisogna tenere presente che il capitalismo in generale è da tempo entrato in crisi strutturale, una crisi che si manifesta in forme ciclicamente diverse (nel 2008 come crisi dei subprime e dei derivati, nel 2012 come crisi del debito sovrano, nel 2020 come crisi pandemica, nel 2022 come crisi bellica), ma che, nella sostanza, è sempre una crisi da sovraccumulazione di capitale da cui il sistema non riesce a uscire. Cicli di crisi sempre più frequenti si alternano a momenti sempre più brevi di crescita economica che, però, non riescono a recuperare quanto perso nella fase recessiva, per cui il sistema resta mediamente in una situazione di stagnazione con tendenza lineare ad una progressiva distruzione delle forze produttive. Questo dato di fatto tende ad affliggere tutte le economie capitalistiche, anche le più dinamiche e resilienti, sia pure con un impatto differente.
Alla radice dei conflitti odierni in generale, quindi anche della guerra in Ucraina, vi è fondamentalmente il tentativo del capitalismo di far fronte alle contraddizioni, insanabili al suo interno, che ne determinano la crisi strutturale, dallo sviluppo economico diseguale alla concorrenza generalizzata e all’anarchia della produzione.
La guerra in Ucraina, tuttavia, tra tutti gli altri recenti conflitti è quella che più rischia di degenerare in un confronto militare diretto tra potenze nucleari dalle conseguenze devastanti per l’umanità tutta ed è una manifestazione della reazione del blocco imperialista USA-UE-NATO allo spostamento del baricentro dell’economia mondiale verso oriente e all’emersione di un nuovo blocco concorrente, altrettanto imperialista, i BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa), che mette seriamente in discussione la supremazia degli Stati Uniti e del dollaro con il proprio peso economico e con una crescente capacità di attrazione e coinvolgimento di altri paesi economicamente emergenti. Lo spostamento verso oriente del baricentro economico del mondo risulta con chiarezza esaminando i dati, forniti dalla Banca Mondiale (IBRD), sulle quote di PIL mondiale, calcolato in $ internazionali, parità di potere d’acquisto (PPP) e prezzi costanti base 2017. Nel 2021, quindi prima dello scoppio della guerra in Ucraina, il valore assoluto del PIL mondiale così calcolato ammontava a 133,86 mila miliardi di dollari, di cui ben il 31,5% (42,15 mila miliardi di dollari) riconducibile ai BRICS, mentre il G7 (USA, Giappone, Germania, Regno Unito, Francia, Italia e Canada in ordine di grandezza del PIL nazionale), che raggruppa i paesi economicamente più sviluppati dell’Occidente politico, detiene complessivamente una quota inferiore di un punto percentuale, pari al 30,5% del PIL mondiale[2]. Gli USA singolarmente presi rappresentano il 15,6% del PIL mondiale, a fronte del 18,6% della Cina e del 14,7% della UE (Eurozona al 11,9%)[3]. Secondo le stime del FMI, nel quinquennio 2023/2027 l’incidenza del PIL dei paesi G7 sul PIL mondiale diminuirà fino al 28,18%, con gli USA che scenderanno dai livelli attuali al 14,6%[4]. Da queste cifre emergono tre dati: 1) i BRICS nel loro complesso producono più ricchezza, in senso capitalistico, dell’insieme dei paesi più sviluppati dell’Occidente politico, rappresentati nel G7; 2) la Cina ha superato gli USA in quanto a produzione di ricchezza; 3) l’UE è immediatamente a ridosso degli USA per produzione di ricchezza, il che ne fa un concorrente economico di tutto rilievo.
Anche il tasso di crescita del PIL nel 2021 rispetto al 2020, dovuto all’effetto rimbalzo che ha interessato tutte le economie dopo la recessione del periodo pandemico e che non ha comunque recuperato pienamente quanto perduto precedentemente, conferma la maggiore capacità di ripresa dei BRICS (+6% in media geometrica, superiore al tasso di crescita del PIL mondiale, trascinato dal +8,9% dell’India e dal +8,1% della Cina, nonostante i suoi frequenti lockdown) rispetto ai paesi del G7 (+4,57%, spinto al ribasso dalle pessime performance di Germania con +2,9% e Giappone con solo +1,6%), dell’UE e dell’Eurozona (entrambe al +5,4%). Sia detto per inciso, tra i paesi G7, la Gran Bretagna fornisce la migliore performance (+7,4%), con buona pace di coloro che vogliono farci credere che non ci sia vita fuori dall’UE. Sostanzialmente, solo i BRICS nel loro insieme si collocano al di sopra del tasso di crescita del PIL mondiale, pari al 5,8%[5]. Nell’aggiornamento di luglio 2022 del già citato report, il FMI rivede al ribasso le stime di crescita del PIL mondiale e al rialzo quelle sull’inflazione[6], imputando ovviamente la decrescita a fattori congiunturali, quali i lockdown anti-COVID in Cina e la guerra in Ucraina, anziché a fattori strutturali, cioè alla maturazione delle contraddizioni insanabili del modo di produzione capitalistico.
Questi dati fotografano un sensibile declino economico dei paesi e delle alleanze imperialiste che finora hanno imposto il proprio dominio al resto del mondo a fronte di una maggiore vitalità degli agglomerati imperialisti emergenti e prefigura un riposizionamento della rispettiva collocazione all’interno della piramide del sistema imperialista mondiale. L’indebolimento delle centrali imperialiste occidentali a fronte della più vivace crescita economica di paesi e blocchi imperialisti concorrenti e la possibilità di polarizzazioni alternative tendono ad ridurre la subordinazione agli USA dei paesi emergenti come potenze regionali e degli stessi alleati tradizionali, rendendone più difficile il controllo e limitando la quota esclusiva di sfruttamento delle risorse mondiali da parte degli Stati Uniti, che vedono in questo una minaccia alla propria leadership globale. Le leggi dello sviluppo diseguale e della concorrenza generalizzata in condizioni di capitalismo spingono oggettivamente a mettere in discussione gli equilibri esistenti per ottenere una nuova spartizione del mondo e sono la causa primaria di tutte le guerre, ma il conflitto in Ucraina non è frutto solo di condizioni oggettive, bensì anche di scelte politiche soggettive che fanno parte della strategia a 360° degli Stati Uniti per cercare di far fronte al declino della propria egemonia. Si tratta di un disegno di respiro globale che tende ad evitare l’impegno degli USA in un confronto militare diretto, come in Vietnam o in Afghanistan, per prediligere il coinvolgimento di paesi satelliti in guerre ibride dove gli interessi, se pure esistono, degli alleati sono interamente subordinati a quelli americani. In questo modo, da un lato, gli USA riescono ad evitare costi logistici eccessivi connessi al dispiegamento sul campo, perdite umane e relative tensioni politiche interne, scaricandone il peso sugli alleati, mentre sviluppano la propria industria militare e si arricchiscono con le forniture di armi attraverso il meccanismo del lend-lease[7] che gonfia il debito estero del paese ricevente, rendendolo ancora più dipendente dal paese fornitore. Ciò permette sia di colpire il nemico di turno, che di indebolire economicamente l’alleato, che in condizioni di capitalismo è anche un concorrente di fatto. La guerra in Ucraina rientra in questo schema di cosiddetta proxy war o guerra per procura e ha come posta in gioco un aut-aut netto: o la sopravvivenza di un ordine mondiale basato sull’egemonia politico-militare degli USA e sulla supremazia del dollaro come equivalente generale delle merci negli scambi internazionali, oppure l’affermazione di un nuovo “equilibrio” internazionale, appunto “multipolare”, dove, nelle intenzioni dichiarate, la Russia e la Cina, ma anche l’India e le altre potenze emergenti, abbiano un ruolo di maggiore rilievo. Tuttavia, poiché ciò non intaccherebbe i rapporti e il modo di produzione capitalistici, il nuovo ordine mondiale che ne scaturirebbe non potrebbe che essere altrettanto imperialista di quello precedente, né rappresenterebbe un equilibrio stabile, ma temporaneo, in quanto manterrebbe tutte le stesse contraddizioni intrinseche al capitalismo in fase imperialista e produrrebbe inevitabilmente nuovi antagonismi e nuove guerre.
Di fronte a una guerra che, per la natura di classe degli stati che vi sono coinvolti e degli interessi che perseguono, al di là delle enunciazioni propagandistiche, si configura come guerra imperialista, i comunisti e il proletariato non devono cadere nella trappola di schierarsi sotto bandiere che di fatto appartengono alla borghesia, appoggiando l’una o l’altra parte in conflitto, né più e né meno di come fece buona parte dei partiti socialdemocratici della II Internazionale alla vigilia e durante la Prima Guerra Mondiale. Poiché il proletariato non ha e non può avere interessi comuni né con la borghesia e i suoi governi, né con nessuno stato imperialista, il Fronte Comunista non appoggia nessuna delle parti belligeranti, ma è risolutamente schierato al fianco dei nostri fratelli di classe che, in Russia, nel Donbass e in Ucraina, ma anche, per altri versi, in Europa e negli stessi Stati Uniti, subiscono le tragiche conseguenze della guerra imperialista. Auspichiamo che il proletariato e i comunisti, in Russia come in Ucraina e dovunque, sappiano mobilitarsi e organizzarsi per portare la guerra imperialista a uno sbocco rivoluzionario in senso socialista.
Le responsabilità della guerra in Ucraina
La responsabilità per la drammatica escalation militare in Ucraina ricade principalmente sul blocco imperialista USA-UE-NATO, che ha accuratamente pianificato questi sviluppi da almeno 20 anni, cioè da quando la borghesia russa ha incominciato a rivendicare un ruolo di grande potenza per il paese, dopo il periodo di prostrazione e genuflessione di fronte agli USA che aveva caratterizzato la presidenza di Eltsin, cioè un ruolo che la trasformava da paese vassallo e saccheggiabile in un pericoloso concorrente degli Stati Uniti sul piano politico, economico e militare. Da quel momento gli USA e i loro alleati europei hanno avviato quell’espansione della NATO verso oriente che, con l’ingresso dell’Ucraina nell’alleanza e anche grazie alle ambiguità e alla connivenza dei regimi borghesi al potere nelle repubbliche ex-sovietiche dell’Asia Centrale, avrebbe dovuto completare l’accerchiamento della Russia, alla quale, nelle intenzioni degli imperialisti americani, si sarebbe dovuto applicare il loro tradizionale approccio destabilizzante nei confronti degli stati plurinazionali, cioè la fomentazione di conflitti interni su base etnica e religiosa al fine di frantumarla in molteplici entità statuali dal peso irrilevante. Un approccio che aveva già dato i suoi frutti in Unione Sovietica e in Jugoslavia. L’ingerenza dell’imperialismo euro-atlantico nelle questioni interne di quei paesi ha creato e alimentato artificialmente le divisioni e i conflitti su base etnico-linguistica, religiosa e nazionale tra popoli che avevano convissuto fraternamente durante tutto il periodo sovietico.
Per sottrarre l’Ucraina dalla sfera d’influenza russa e attuare i propri piani di accerchiamento e isolamento della Russia, il blocco imperialista USA-UE-NATO ha finanziato prima la cosiddetta “rivoluzione arancione” per manipolare il risultato delle elezioni presidenziali del 2004 a favore del candidato filoatlantico Yuščenko contro il favorito Yanukovič, più vicino a Mosca. USA, UE e NATO istigarono e finanziarono attivamente il colpo di stato del 2014 che portò al potere una giunta fantoccio con la partecipazione di elementi neonazisti. Con un’ingerenza negli affari interni dell’Ucraina senza precedenti, addirittura l’Alta Rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Catherine Ashton, tenne comizi e guidò cortei durante l’Euromaidan, incitando alla rivolta contro il presidente in carica. Avendo finanziato e armato partiti e organizzazioni naziste e ultra-nazionaliste e fomentato il golpe del 2014, USA, UE e NATO si sono resi corresponsabili delle violazioni dei diritti dell’uomo e dei crimini commessi dal regime fantoccio da essi stessi instaurato: dagli assassini di comunisti, sindacalisti, veterani della Grande Guerra Patriottica, di semplici cittadini russofoni, alla strage della Casa dei Sindacati di Odessa, dal divieto dell’uso della lingua russa alla sistematica persecuzione dei cittadini di nazionalità russa, dal divieto dei simboli e della propaganda comunista alla messa al bando di ben 16 partiti politici dell’opposizione, fino alla riabilitazione di Stefan Bandera e di altri criminali di guerra nazisti. Furono proprio questi crimini, perpetrati da un regime che il blocco USA-UE-NATO oggi difende in nome dei “valori della democrazia occidentale”, il motivo scatenante della giusta rivolta armata del proletariato del Donbass e della sua eroica resistenza.
Tuttavia, la responsabilità di quanto sta avvenendo in Ucraina ricade anche sulla borghesia russa e su quanti, nell’attuale dirigenza del paese, hanno contribuito in prima persona all’affossamento del socialismo e allo smembramento dell’URSS. La liquidazione del socialismo ha portato anche in Russia alla rapida formazione di monopoli capitalistici e di un’oligarchia finanziaria, rapace e affamatrice del proprio popolo, che confligge con l’imperialismo occidentale avendo per scopo non certo lo sradicamento del fascismo o un’ordine mondiale più giusto, ma una nuova spartizione del mondo che le garantisca nuovi e maggiori profitti. La Russia di oggi non è l’Unione Sovietica, né è l’erede dei suoi valori ideologici e politici. È uno stato capitalistico, governato da dirigenti che hanno avuto un ruolo di primo piano nello smembramento dell’URSS e nello smantellamento del socialismo e sono espressione di una borghesia tra le più rapaci e reazionarie al mondo, che assume come propria base ideologica un miscuglio di anticomunismo, sciovinismo grande-russo e fondamentalismo religioso ortodosso, che ha per simboli di stato le insegne dell’autocrazia zarista e la bandiera tricolore dei Romanov e del traditore collaborazionista Vlasov, che consente l’esistenza in Russia di ben 53 organizzazioni neonaziste, monarchiche, ultranazionaliste e ultraortodosse, mentre reprime, con la violenza o con pretestuosi cavilli giuridici, qualsiasi tentativo di organizzazione politica e sindacale di classe e tollera solo la belante e inconcludente opposizione parlamentare degli opportunisti di regime, per altro sempre allineati alla politica estera del potere borghese. Non è un caso che il sostegno incondizionato all’intervento militare russo in Ucraina provenga da partiti comunisti che hanno da tempo imboccato la via dell’opportunismo e si sono largamente compromessi con i regimi borghesi attualmente al potere nello spazio ex-sovietico.
Non bisogna dimenticare che il regime borghese russo nel corso degli ultimi 8 anni non ha fatto nulla per fermare i bombardamenti ucraini in Donbass che hanno massacrato ben 15.000 vittime. Non ha fatto nulla perché le componenti proletarie e pro-sovietiche allora predominanti nel movimento antifascista del Donbass erano altrettanto invise ai capitalisti russi quanto a quelli ucraini. In quella fase la Russia borghese fece di tutto per soffocare il movimento antifascista del Donbass, usando la questione aperta dello status delle due repubbliche come mezzo di pressione sull’Ucraina, paralizzando il successo militare e politico del movimento con gli accordi di Minsk in uno sforzo congiunto con l’Ucraina. Il Donbass ha dovuto pagare con il sangue del suo popolo, usato come merce di scambio dai capitalisti russi. In questi 8 anni, molto è cambiato nel Donbass e non in meglio. Il movimento popolare antifascista è stato soffocato, dirigenti politici e comandanti sul campo di orientamento comunista o progressista sono stati assassinati in strane circostanze nessuno sa da chi, la milizia ha cambiato composizione di classe e orientamento politico e si è trasformata in un esercito regolare, in cui prevalgono elementi nazionalisti grandi-russi di orientamento di destra. Nella RPD al Partito Comunista è stata impedita la partecipazione alle elezioni, mentre nella RPL tutti i partiti sono vietati con il pretesto dello stato di guerra. Le repubbliche del Donbass, oggi annesse alla Federazione Russa, erano state già da tempo trasformate in entità oligarchiche per l’esercizio la dittatura della borghesia locale e russa.
La frantumazione di uno spazio economico-politico socialista unico, pur intaccato dal processo revisionista avviato dal XX Congresso del PCUS, ma ancora basato su principi collettivistici di solidarietà, amicizia e autodeterminazione dei popoli, ha trasformato le repubbliche ex-sovietiche in luoghi di aspra contesa tra settori del capitale, locale e internazionale, per la rapina delle risorse, naturali e umane (si pensi ai flussi migratori verso la Russia di manodopera a basso costo e senza alcuna tutela, proveniente dalle repubbliche dell’Asia Centrale e del Caucaso) e della capacità produttiva, industriale e agricola, creata dal potere sovietico. Dal 1991, le strutture produttive, le infrastrutture e le risorse naturali dell’Ucraina sono divenute oggetto di una spartizione saccheggiatrice tra capitalisti russi, statunitensi, europei e, ovviamente, ucraini. La contesa tra capitalisti nazionali e internazionali per la rapina di ciò che era patrimonio del popolo sovietico nella sua interezza continua oggi nella forma della guerra attualmente in corso, ma con finalità che non riguardano solo questo aspetto, ma il tema cruciale dell’assetto e degli equilibri mondiali.
Il blocco USA-UE-NATO continua a sostenere, finanziare e armare il criminale regime fantoccio ucraino, eterodiretto e ormai privo di qualsiasi sovranità. Nel periodo dal 24 gennaio al 3 agosto 2022, gli imperialisti euroatlantici e i loro alleati hanno fornito “aiuti” al governo e ai fascisti ucraini per un valore di 84,16 miliardi di euro (44,53 miliardi di euro solo dagli USA), di cui la maggior parte in forniture militari e fondi a sostegno delle inesistenti finanze statali ucraine, mentre solo un’infima parte è stata devoluta in forma di aiuti umanitari a sostegno della popolazione colpita dalla guerra[8]. Oltretutto, ciò che la propaganda borghese spaccia per “aiuti” è in prevalenza un insieme di prestiti e forniture di armamenti a credito tutt’altro che disinteressati, che rafforzano la totale dipendenza dell’Ucraina dai “difensori dei valori democratici” occidentali attraverso il giogo di un debito estero che l’Ucraina non potrà mai onorare. Queste cifre, il clima da resa dei conti e l’intento, dichiarato esplicitamente dai vertici politici degli USA, dell’UE e della NATO, di volere un’umiliante sconfitta militare della Russia che la espella dal novero delle grandi potenze, confermano l’entità della posta in gioco in questo conflitto, che non si combatte tra Russia e Ucraina, bensì è una guerra che gli USA, la NATO e l’UE conducono contro la Russia servendosi della parte più reazionaria della borghesia ucraina, del guitto Zelensky e del suo governo di marionette, che cinicamente hanno condannato il proprio popolo a una lenta agonia. Nonostante il rischio nucleare, gli imperialisti euro-atlantici, soprattutto per volontà degli Stati Uniti, rifiutano ogni trattativa per una soluzione diplomatica del conflitto che non comporti condizioni inaccettabili per la Russia. D’altro canto, in condizioni di capitalismo e allo stato attuale sul campo, qualsiasi “soluzione diplomatica”, qualsiasi accordo di pace, sarebbero solo temporanei in attesa di una ripresa delle ostilità in un momento successivo.
L’invio di armi al governo e ai nazisti ucraini, in violazione delle costituzioni di molti paesi e degli stessi regolamenti dell’UE, che vietano la fornitura di armi a paesi in guerra, è ignobile e criminale, in quanto mira a continuare lo spargimento di sangue e le sofferenze dei popoli nell’intento di piegare la Russia, senza contare che buona parte delle forniture finisce per alimentare il contrabbando di armi e le organizzazioni criminali, come denuncia l’Europol[9].
Prolungare il conflitto rientra nella già citata strategia globale degli USA che, in questo modo, perseguono molteplici obiettivi: 1) colpire la Russia come potenza nucleare concorrente sul piano militare; 2) colpire la Russia come paese concorrente nella fornitura di risorse energetiche al resto del mondo; 3) colpire la Russia come uno dei paesi cardine dei BRICS allo scopo di indebolirli come alleanza imperialista concorrente, avendo soprattutto la Cina come prossimo obiettivo; 4) logorare l’UE, soprattutto la Germania, con il suo coinvolgimento nella guerra attraverso le forniture militari a carico dei bilanci pubblici e le sanzioni contro la Russia, che hanno pesanti ricadute economiche per i paesi che le impongono.
La guerra economica e le sanzioni
Parallelamente alla guerra sul campo, il blocco imperialista USA-UE-NATO sta conducendo una vera e propria guerra economica contro la Russia attraverso l’imposizione di sanzioni, un’arma di guerra ibrida tradizionalmente usata dagli USA, che colpisce deliberatamente i popoli per destabilizzare il potere in carica attraverso l’apertura di un fronte interno che, facendo leva sul malcontento popolare, determini un cambio di regime e della sua politica estera. La storia recente dimostra che le sanzioni sono efficaci solo nell’accrescere le sofferenze del popolo che ne è vittima, mentre non riescono a provocare i sostanziali mutamenti politici che si prefiggono e, a volte, sortiscono addirittura l’effetto opposto. Gli USA, nel quadro della loro strategia globale per la conservazione del predominio mondiale, utilizzano l’UE come punta di lancia nella guerra economica condotta a colpi di sanzioni contro la Russia. Le sanzioni antirusse si stanno rivelando un’arma a doppio taglio che danneggia pesantemente anche le economie dei paesi che le impongono con ricadute devastanti sui lavoratori e i ceti popolari dei paesi sanzionanti, mentre si rivelano quasi inefficaci a raggiungere l’obiettivo prefissato di mettere in ginocchio la Russia, dato il suo potenziale economico, ereditato dall’Unione Sovietica. Bisogna considerare che i principali agenti di questa guerra, tanto gli USA quanto la Russia, godono di una piena autonomia energetica a differenza dell’UE, che invece dipende quasi interamente dai fornitori esteri e questo basta a porla in una condizione di forte svantaggio, come un vaso di coccio tra due vasi di ferro. La tendenza al rialzo del prezzo del gas è solo marginalmente collegabile alla guerra, come dimostrano le sue fluttuazioni prima e durante gli eventi bellici, ma è dovuta ad altri cofattori, quali l’aumento della domanda mondiale, soprattutto negli USA, dopo la pandemia, le aspettative di una ripartenza dell’economia cinese dopo i ripetuti lockdown, la decisione dei paesi produttori cartellizzati nell’OPEC+ di diminuire l’estrazione, la riduzione degli stoccaggi per difetto di domanda durante la pandemia e la natura altamente privatistica e speculativa dei mercati di approvvigionamento, come il TTF (Title Transer Facility) della Borsa di Amsterdam, un luogo virtuale dove le società per azioni distributrici acquistano il gas dai fornitori. In un mercato di quel tipo, il prezzo del gas, che – lo ricordiamo – era già in crescita da prima della guerra e ha avuto anche fluttuazioni al ribasso durante la stessa, non si forma semplicemente in base ai costi di produzione e di trasporto sul lato dell’offerta e dalla quantità richiesta sul lato della domanda, ma subisce l’effetto della speculazione dei cosiddetti traders, cioè intermediari non produttori che commercializzano il gas. Un esempio di come opera questo meccanismo sono i contratti futures che, in fase di contango,[10] hanno giocato un ruolo decisivo nella spinta al rialzo del prezzo del gas, consentendo alle compagnie gas-petrolifere di realizzare extra-profitti da capogiro, calcolati, per le sei principali compagnie europee, in +74,55 miliardi di euro, con ENI a +5,52 miliardi di euro[11], in buona parte distribuiti come dividendi a remunerazione del capitale azionistico. Analoghe considerazioni valgono per materie prime come acciaio, alluminio, rame, altri metalli non ferrosi e semiconduttori, ma anche cereali e fertilizzanti per l’agricoltura. Il collegamento degli esorbitanti aumenti della bolletta energetica con gli eventi bellici è evidentemente artificiale e propagandistico, in quanto è conseguenza della struttura del mercato capitalistico che favorisce la speculazione dei monopoli del settore energetico: come sempre, la guerra imperialista è pagata dal proletariato, mentre i capitalisti intascano le cedole dei dividendi, in questo caso pari a oltre 31 miliardi di dollari[12].
Le sanzioni hanno ulteriormente aggravato questa situazione. L’UE dipende dal gas russo per 155 miliardi di metri cubi[13] all’anno. La decisione di ridurre o addirittura azzerare la dipendenza dal gas e dal petrolio russi, dettata su pressione degli USA da ragioni geostrategiche e ideologiche, non certo economiche, ha costretto i governi borghesi europei ad una corsa affannosa per trovare paesi fornitori alternativi che, però, vendono a prezzi di gran lunga maggiori rispetto alla Russia e sono spesso sede di conflitti locali o, comunque, presentano rischi di instabilità politica. Perseguendo la già citata strategia di logoramento dell’alleato-concorrente, gli Stati Uniti, che sono energeticamente autonomi e hanno poco o nulla da perdere in questo gioco al massacro economico, si arricchiscono fornendo all’UE gas naturale liquido (GNL), ottenuto con il procedimento di fracking che, oltre ad essere di qualità inferiore a quello russo, comporta maggiori costi in misura almeno del 53% a causa del trasporto su nave e della necessità di disporre di impianti di rigassificazione, che in Italia saranno pienamente operativi solo tra 8 anni, senza contare l’impatto ambientale causato dal fracking. Non è un caso che gli attentati ai gasdotti North Stream 1 e 2 siano stati attuati a ridosso delle proteste di massa che in Germania chiedevano a gran voce il loro ripristino e la cessazione delle sanzioni contro la Russia, per evitare qualsiasi tentazione in tal senso del governo tedesco. In effetti la Germania, in quanto locomotiva economica dell’UE, è il primo bersaglio della strategia logoratrice degli USA. Inoltre, è assolutamente illegale, sul piano del diritto, l’introduzione di sanzioni parallele contro paesi terzi che non rispettino il price cap sul petrolio russo, fino al sequestro delle navi adibite al suo trasporto, in quanto viola la sovranità e l’indipendenza decisionale dei paesi terzi. A parte il fatto che un tetto unilaterale solo sul prezzo delle forniture russe è già in sé una misura insensata, poiché provocherà un aumento del costo di quelle alternative, anche qui si può riconoscere l’impronta della prepotenza statunitense, poiché si tratta di una riedizione della famigerata legge Helms-Burton, varata contro Cuba, che costituisce un vero e proprio atto di banditismo internazionale.
In sintesi, è ora di dire con chiarezza che i problemi energetici dei paesi dell’UE e il correlato peggioramento delle condizioni di vita del proletariato europeo non dipendono dalla Russia, ma sono conseguenza di scelte politiche dissennate della stessa UE e dell’isteria sanzionatoria da cui sono affetti i suoi vertici. Chiunque abbia un minimo di buonsenso e non sia in malafede, capisce perfettamente che non è la Russia a chiudere i rubinetti del gas per ricattare l’UE, ma è quest’ultima ad avere deciso unilateralmente su pressione degli USA di rifiutare le forniture russe, creando un’ulteriore impennata dei prezzi, portando l’economia verso recessione e imponendo ai popoli dei paesi membri razionamenti e misure da economia di guerra.
Anche le altre sanzioni commerciali e finanziarie si sono rivelate un boomerang contro le economie dell’UE, mentre hanno un impatto quasi nullo su quella statunitense. Prima delle sanzioni l’UE era il primo partner commerciale della Russia che, a sua volta, era il quarto partner commerciale dell’UE. Nel 2021 il volume totale delle esportazioni di beni dall’UE verso la Russia, al netto dei servizi, ammontava a 104.465.217.469 di dollari, mentre le importazioni di beni dalla Russia ammontavano a 168.754.237.534 di dollari, con un saldo della bilancia commerciale a favore della Russia pari a 64.289.020.065 di dollari, dovuto alla domanda energetica e di materie prime europea[14]. Se le trionfalistiche dichiarazioni della presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen non sono solo vuota propaganda di guerra, le sanzioni avrebbero determinato una riduzione del 70% delle esportazioni europee verso la Russia. Senonché, quello che viene presentato come un successo della guerra economica contro la Russia comporta minori ricavi per le aziende esportatrici europee in misura di 73.125.652.228 di dollari, il che sta provocando la chiusura di molte di esse con pesanti ricadute in termini di occupazione, livelli salariali e sicurezza sul lavoro. Per contro, sempre nel 2021, le esportazioni di beni dagli USA alla Russia ammontavano a 6.388.250.933 di dollari e le importazioni di beni dalla Russia a 17.265.493.914, anche in questo caso con un saldo positivo della bilancia commerciale a favore della Russia in misura di 10.877.242.981[15]. La perdita che l’UE subisce con le proprie sanzioni commerciali è oltre 10 volte superiore a quella sopportata dagli USA.
Limitatamente all’Italia e solo per l’impatto specifico delle sanzioni antirusse, cioè prescindendo dalla catastrofica situazione del quadro macroeconomico generale, oltre 20.000 imprese sono colpite dalle limitazioni all’esportazione verso la Russia, in settori che vanno dalle alte tecnologie, ai trasporti, fino all’agroalimentare, all’abbigliamento e alle calzature, con conseguenti riduzione della produzione e degli organici che le espongono a rischio chiusura. Lo stesso discorso vale per le aziende manifatturiere importatrici di materie prime di provenienza russa, costrette a sospendere la produzione e a licenziare a causa del divieto d’importazione delle materie prime necessarie dalla Russia o del maggior costo dell’approvvigionamento da altri paesi. Soprattutto, sia per importatori che esportatori, al di là delle sanzioni per categoria merceologica, l’effetto più devastante è provocato dal divieto di effettuare transazioni attraverso le banche russe sanzionate e dall’esclusione della Russia dal circuito SWIFT, misure che hanno fatto saltare il sistema dei pagamenti bilaterali. Se anche una specifica merce non è soggetta a sanzione, è pressoché impossibile effettuarne o riceverne il pagamento. Queste stesse sanzioni finanziarie, ad esempio, impediscono ai due principali gruppi bancari italiani, Unicredit e Intesa Sanpaolo, di incassare crediti esigibili per 27 miliardi di euro (col rischio che in un futuro non lontano si verifichi l’esigenza di una loro ricapitalizzazione) e agli investitori occidentali di riscuotere gli interessi sulle obbligazioni del debito russo. Anche questo default “virtuale” della Russia, che avrebbe i mezzi e la volontà di pagare, ma non può per via delle sanzioni finanziarie, viene spacciato per un successo occidentale nella guerra economica, ma a rimetterci sono in realtà gli investitori esteri, mentre i media borghesi tacciono sul default reale, dichiarato il 26 luglio scorso, di Neftogaz, ente ucraino per gli idrocarburi che, invece, i mezzi non li ha.
Si potrebbe continuare, ma bastano questi esempi per capire come le folli sanzioni antirusse accelerino i tempi e approfondiscano la gravità di una stagnazione in cui il capitalismo, soprattutto quello europeo, era già entrato prima dello scoppio delle ostilità in Ucraina. L’inflazione è stata artificialmente stimolata negli anni recenti dalla politica monetaria della BCE, che ha cercato di far fronte ai cicli di crisi succedutisi immettendo nel sistema liquidità in eccesso, a esclusivo vantaggio di banche e monopoli, prima con il quantitative easing, poi con i piani di ripresa post-COVID, finanziati stampando moneta e aumentando il debito comunitario e dei singoli stati membri. La spinta inflattiva è alimentata sia dalla natura speculativa del mercato capitalistico, sia dalla scarsità di fonti energetiche, materie prime e semilavorati, specificamente provocata dalle sanzioni. Queste difficoltà stanno spingendo centinaia di migliaia di aziende europee alla chiusura, ma stanno anche provocando un’insolita forma di delocalizzazione verso gli USA, considerato sia più stabili dal punto di vista dell’approvvigionamento e dei prezzi di energia e materie prime rispetto all’Europa destabilizzata dalla guerra, sia più attrattivi grazie a specifiche politiche governative di supporto alle aziende dei settori energetico, siderurgico, chimico, meccanico e delle tecnologie informatiche, come riferisce il Wall Street Journal[16]. Lo spostamento di capitali verso gli USA e la sfiducia degli investitori internazionali nelle capacità di tenuta delle economie europee si riflettono anche sui mercati valutari e spiegano l’apprezzamento del dollaro rispetto all’euro in caduta, fattore che, a sua volta, alimenta l’inflazione attraverso il maggior costo dei beni energetici importati, a domanda rigida e regolati in dollari e tende a innalzare il costo del debito estero denominato in euro a causa dell’aumento della spesa per interessi.
L’economia dell’UE e dei paesi membri è già entrata in una fase di stagflazione, cioè di ristagno economico accompagnato da crescente inflazione, con buone probabilità di precipitare in una gravissima recessione a causa delle scellerate scelte politiche sanzionatorie dei vertici dell’UE e dei governi borghesi dei singoli paesi membri, pienamente consone alla già citata strategia americana di indebolimento dell’UE come concorrente economico, con il rischio di compromettere definitivamente, dal punto di vista strutturale, la capacità produttiva a causa delle chiusure di molte PMI (solo in Italia, oltre 120.000 aziende per un volume di 370.000 posti di lavoro[17]) e delle delocalizzazioni di aziende strategiche ad alta intensità di capitale. Il fatto che l’UE, con il proprio coinvolgimento nella guerra tra USA e Russia, abbia imboccato una strada che oggettivamente contraddice i suoi interessi economici contingenti si spiega non solo perché gran parte dei suoi dirigenti politici esecutivi sono stati formati o hanno a lungo lavorato negli Stati Uniti e mantengono forti legami, anche economici, con quel paese, non solo perché nessuno di essi subisce le tragiche conseguenze delle loro decisioni come le subisce il proletariato, non solo perché ogni guerra imperialista è un azzardo di chi la provoca – e chi ha provocato questa guerra è il blocco imperialista USA-UE-NATO – nella convinzione di poter vincere il nemico, ma soprattutto perché i settori dominanti del capitale europeo sono compartecipi e cointeressati a una spartizione del mondo basata sul predominio degli Stati Uniti, ai quali, dalla Seconda Guerra Mondiale in avanti, hanno affidato il compito di gendarme mondiale dei loro interessi. In altre parole, i settori dominanti del capitale europeo sembrano ritenere che, se l’ordine mondiale esistente venisse sconvolto da uno spostamento del suo baricentro economico, da un cambio al vertice della piramide del sistema imperialista mondiale, anche la loro posizione, privilegiata ancorché subordinata rispetto agli USA e non esente da contrasti e concorrenza reciproca, ne verrebbe nel complesso travolta. Pertanto gli interessi contingenti vengono sacrificati nell’aspettativa della conservazione di quelli di lungo periodo. Inutile dire che a pagare le conseguenze, immediate e future, di queste scelte strategiche del capitale sarà il proletariato, se non sarà in grado di volgere a proprio favore i rapporti di forza tra le classi.
Il capitalismo europeo si trova così di fronte al consueto dilemma, insolubile nell’ambito di questi rapporti di produzione, se combattere l’inflazione attraverso manovre restrittive o cercare di evitare la recessione attraverso politiche espansive. Va detto che ogni decisione in proposito, nel quadro del capitalismo, non può che essere sfavorevole alla classe operaia e ai ceti popolari, che pagano la recessione in termini di licenziamenti, disoccupazione, precarietà e l’inflazione in termini di riduzione del salario reale a causa dell’aumento dei prezzi e dei costi sociali delle misure antinflazionistiche, quali l’aumento del tasso d’interesse dei mutui e il taglio dei servizi essenziali a contenimento della spesa pubblica. La BCE ha ufficialmente scelto di dare preminenza alla lotta all’inflazione, ritornando alle consuete politiche antinflattive che già hanno massacrato il proletariato europeo negli anni passati, aggravando così il rischio di recessione. Per combattere l’inflazione, nelle intenzioni della BCE e nelle raccomandazioni della Commissione Europea, si utilizzano gli strumenti tradizionali del rigore di bilancio in funzione della riduzione del deficit e del debito in rapporto al PIL e dell’aumento del costo del denaro, cioè dei tassi d’interesse, in un quadro di “moderazione retributiva”, che tradotto significa salari ancor più da fame non indicizzati all’inflazione reale.
Ai fini di questa analisi non possiamo trascurare alcuni aspetti inerenti la finanza pubblica. Il coinvolgimento del nostro paese, attraverso le sanzioni e il supporto al regime di Kiev, nella guerra che gli USA combattono contro la Russia fino all’ultimo ucraino grava sui conti pubblici e questo va considerato per comprendere appieno la profondità del baratro in cui i vertici dell’UE e i governi borghesi nazionali stanno facendo sprofondare il proletariato con le loro scelte di politica estera. L’aumento del costo del denaro, strumento classico di lotta all’inflazione, comporta un aumento della spesa per interessi sul debito, quindi un aggravio del debito lordo e un peggioramento del rapporto debito/PIL, soprattutto in un momento di crescita ridotta, se non negativa, come quello che si sta profilando anche per effetto delle sanzioni. Per quanto riguarda il nostro paese, la Banca d’Italia registrava a luglio di quest’anno un debito pubblico lordo da record, pari a 2.770.463.300.000 di euro, con un aumento di 44.682.200.000 di euro (+6,16%) rispetto a luglio dell’anno precedente[18], dovuto in buona parte alle politiche di contrasto all’impatto economico della pandemia, tutte a sostegno del capitale e di specifiche categorie di borghesia, attuate con scostamenti di bilancio. Inoltre, si deve tenere presente che le ingenti risorse stanziate dal Recovery Plan-EU Next Generation ed erogate a condizione di ulteriori riforme di contenimento della spesa sociale e previdenziale e del costo del lavoro, tese soprattutto a mantenere la dinamica di salari e pensioni al di sotto di quella dell’inflazione, non sono un regalo dell’UE e andranno restituite o sotto forma di rimborso dei prestiti ricevuti, o come maggiore contributo degli stati membri al bilancio comunitario, in ogni caso a carico della fiscalità generale. Analogo discorso vale per il piano REpowerEU, frutto della folle decisione dell’UE di rinunciare interamente entro il 2027 ai combustibili fossili di provenienza russa. Il piano impegna i paesi membri ad “aggiungere un capitolo REPowerEU ai loro piani di ripresa e resilienza per orientare gli investimenti verso le priorità REPowerEU e attuare le riforme necessarie …” utilizzando “… i prestiti rimanenti del dispositivo per la ripresa e la resilienza (attualmente 225 miliardi di euro) e le nuove sovvenzioni del dispositivo finanziate mediante la messa all’asta di quote del sistema di scambio delle emissioni, attualmente detenute nella riserva stabilizzatrice del mercato (20 miliardi di euro)“[19]. Tra gli altri strumenti di finanziamento del piano, il documento ufficiale cita, oltre al ricorso alla Banca Europea d’Investimento e a vari fondi comunitari, comunque alimentati dalla contribuzione degli stati membri, “finanziamenti nazionali” e “misure fiscali nazionali“[20]. Alla fine dei conti, anche questo piano viene finanziato con prestiti da rimborsare, che aumentano il debito dei singoli stati e con altri strumenti in ultima istanza completamente a carico dei contribuenti, che finiranno per pagare la guerra del blocco imperialista USA-UE-NATO. È, quindi, prevedibile che i governi borghesi rispondano al peggioramento dei conti pubblici, aggravato dalle loro stesse scelte sanzionatorie, con un aumento della pressione fiscale, diretta e indiretta (già salita nel suo complesso al 42,4% nel II trimestre 2022[21] e soprattutto gravante sui lavoratori a più basso reddito, per via della rimodulazione delle aliquote e degli scaglioni attuata dalla iniqua riforma del governo Draghi), nonché con ulteriori tagli dei servizi e delle prestazioni sociali per contenere la spesa pubblica. L’eventuale avanzo primario del bilancio dello stato, ottenuto con il maggior gettito fiscale e con i risparmi di spesa derivanti dai sacrifici imposti ai lavoratori e ai ceti popolari, servirà a pagare gli interessi sul debito pubblico, cioè finirà nelle casseforti delle banche private italiane ed estere che ne detengono la quota maggiore. La prospettiva per il proletariato, quindi, è quella di un drastico peggioramento delle proprie condizioni di vita e di lavoro, con ulteriori contrazioni di salari reali e pensioni, aumenti dei prezzi di beni di prima necessità, carburanti, gas, elettricità, trasporti e del costo dei mutui, crescita della disoccupazione e della precarietà, in un processo di impoverimento già in atto che può solo accelerare, soprattutto in un paese come l’Italia, dove i salari sono diminuiti del 3% negli ultimi dieci anni e, secondo i dati del 2021, l’11,6% dei lavoratori dipendenti (working poor) e il 25,2% della popolazione (circa 15.120.000 di persone) versano in condizioni di povertà[22].
Conclusioni
Questa drammatica prospettiva può essere contrastata solo con una forte ripresa della lotta di classe che faccia prevalere gli interessi e i bisogni della classe operaia e dei ceti popolari, contro la guerra imperialista, contro la logica del profitto capitalistico e le politiche antipopolari del capitale e dei suoi governi, che vorrebbero far pagare il costo della loro crisi e della loro guerra al proletariato. Il proletariato, italiano ed europeo, è stato trascinato, di fatto e suo malgrado, in una guerra tra blocchi e stati imperialisti dalla quale non ha da attendere che nuovi sacrifici e sofferenze. Resta quanto mai attuale l’esortazione di Lenin al proletariato, che non ha interessi “nazionali” da condividere con i suoi sfruttatori, affinché lotti attivamente per la disfatta politico-militare della propria borghesia nella guerra imperialista come presupposto del rovesciamento del suo potere e del successo della rivoluzione socialista nel proprio paese. Occorre, dunque, che i comunisti si impegnino a fondo per sviluppare un movimento antimperialista vero, forte e di massa, che abbia al centro la classe operaia, ma sappia coinvolgere nella battaglia contro la guerra e il fascismo tutti i ceti popolari e anche settori di piccola e media borghesia penalizzati dalle scellerate scelte guerrafondaie dell’UE e dei governi del capitale. Un movimento che sia consapevole del fatto che non vi sarà mai una pace stabile, basata su relazioni di amicizia, solidarietà e cooperazione tra i popoli finché non sarà definitivamente rovesciato il potere borghese e abbattuto il capitalismo, ma che da subito rivendichi:
- l’immediata cessazione della partecipazione italiana alla guerra imperialista in Ucraina e delle forniture di armi al suo regime reazionario;
- la revoca immediata delle sanzioni contro la Russia, che hanno tragiche conseguenze per il proletariato e l’economia del nostro paese;
- la ripresa del dialogo e di normali relazioni diplomatiche, economiche e culturali con la Russia;
- il ristabilimento delle forniture energetiche russe attraverso la stipula di contratti a lungo termine che ne fissino il prezzo a un livello concordato e conveniente al fine di evitare speculazioni da parte delle compagnie distributrici;
- la confisca (non la semplice tassazione!) degli extra-profitti speculativi dei monopoli gas-petroliferi per abbattere l’impatto del rincaro delle bollette energetiche sui lavoratori;
- la chiusura di tutte le basi militari della NATO e degli Stati Uniti nel nostro paese, utilizzate come avamposti di partenza per la guerra.
Sviluppiamo e rafforziamo la lotta per il disimpegno e l’uscita unilaterale dell’Italia dall’UE e dalla NATO, nel rifiuto delle servitù economiche e militari imposte da queste alleanze imperialiste!
NON UN EURO, NON UN SOLDATO PER LA GUERRA DELLA NATO!
[1] V.I. LENIN, “Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa“, Opere Complete, vol. 26, pag. 353[2] Fonte: The Worldbank, in https://data.worldbank.org/indicator/NY.GDP.MKTP.KD.ZG[3] Ibidem
[4] Fonte: International Monetary Fund, World Economic Outlook Database – April 2022
[5] Fonte: The Worldbank, in https://data.worldbank.org/indicator/NY.GDP.MKTP.KD.ZG
[6] Fonte: International Monetary Fund, World Economic Outlook Database – Update July 2022
[7] Letteralmente, “affitti e prestiti”, meccanismo in base al quale le armi vengono vendute a credito o prestate a canone d’uso con obbligo di restituzione o riscatto alla fine del conflitto. Nella data simbolica del 9 maggio 2022, il Congresso degli USA ha approvato il “Ukraine Democracy Defense Act” conferendo al Presidente poteri senza limitazioni per la fornitura di armi al regime fantoccio di Kiev.
[8] Fonte: https://www.statista.com/statistics/1303432/total-bilateral-aid-to-ukraine/
[9] https://www.globalist.it/intelligence/2022/07/26/ucraina-le-armi-delloccidente-alimentano-il-mercato-nero-lo-dice-europol/
[10] Il contango si verifica quando vengono stipulati contratti futures a prezzi superiori ai prezzi spot, nell’aspettativa di un trend in aumento, cosa che contribuisce effettivamente a fare lievitare i prezzi.
[11] Fonte: ReCommon e Merian Research, in https://www.qualenergia.it/articoli/extra-profitti-oilgas-quanti-sono-dove-finiscono/
[12] Ibidem
[13] Fonte: Il Sole24Ore, 9 luglio 2022
[14] Fonte: United Nations Statistics Data, in https://comtrade.un.org/Data/
[15] Ibidem
[16] The Wall Street Journal, “High Natural-Gas Prices Push European Manufacturers to Shift to the U.S.“, 21/09/2022
[17] Fonte: Il Sole 24 Ore, 05/10/2022
[18] Fonte: Banca d’Italia, Base Dati Statistica, Debito delle AP
[19] Commissione Europea, “REPowerEU: energia sicura, sostenibile e a prezzi accessibili per l’Europa”
[20] Ibidem
[21] Fonte: Il Sole 24 Ore, 05/10/2022
[22] Fonte: Commissione Europea, EUROSTAT, in https://ec.europa.eu/eurostat/web/main/data/database
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