Il 30 dicembre di quest’anno cade il centenario della fondazione dell’URSS, la cui esistenza contribuì enormemente all’affermazione dei diritti umani e sociali di tutti i popoli e al loro affrancamento dal giogo coloniale, al progresso tecnologico e scientifico di tutta l’umanità e al mantenimento della pace nel mondo, costituendo un potente freno alle pulsioni guerrafondaie dell’imperialismo.
Con la Grande Rivoluzione Socialista d’Ottobre, le masse operaie e contadine, che avevano abbattuto l’autocrazia zarista, diventando per la prima volta nella storia protagoniste attive della politica e padrone del proprio destino, sotto la guida del Partito Comunista Bolscevico, diedero vita al primo stato proletario al mondo, la Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa. La dittatura proletaria si concretizzò nei Soviet, cioè nella forma della democrazia consiliare, un modello statuale alternativo alla democrazia parlamentare borghese, espressione della dittatura del capitale. La democrazia sovietica si basava, sostanzialmente, sul principio per cui solo i lavoratori potevano esercitare i diritti politici, eleggere ed essere eletti, mentre questi erano interdetti all’aristocrazia e alla borghesia, cioè alle classi sfruttatrici. Veniva così realizzata la dittatura della maggioranza degli sfruttati sulla minoranza degli sfruttatori, cioè la più alta forma di democrazia che l’umanità abbia mai conosciuto. Inoltre, i Soviet erano organi legislativi ed esecutivi al tempo stesso, per cui l’attuazione delle deliberazioni era compito diretto dell’organo che le aveva approvate, quindi immediata e libera dalle pastoie burocratiche della democrazia borghese. Il controllo dal basso sull’attuazione delle decisioni politiche ed economiche, un altro pilastro della democrazia sovietica senza analoghi al mondo, era affidato al Rabkrin, l’Ispezione Operaia e Contadina.
Oltre alla socializzazione dei mezzi di produzione e alla liquidazione del latifondo, una delle prime misure adottate dal nuovo governo sovietico riguardò l’uscita della Russia dalla rovinosa guerra imperialista e il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione dei popoli che facevano parte del disciolto Impero Russo. L’esperienza vittoriosa della classe operaia russa diventò un punto di riferimento per il proletariato di tutte le nazionalità che avevano fatto parte dell’Impero e l’ondata rivoluzionaria si estese a tutte le sue provincie. I soldati, per la maggior parte elementi proletari, che rientravano dal fronte con le armi, costituivano la massa d’urto della rivoluzione. La Guardia Rossa operaia venne così trasformata nell’Armata Rossa Operaia e Contadina, la forza militare che, dopo 4 anni di guerra civile, riuscì a schiacciare la reazione controrivoluzionaria di monarchici, nazionalisti e borghesi e l’intervento a loro sostegno di ben 14 stati imperialisti.
Su queste basi, nel 1922, quando la rivoluzione si era ormai affermata in tutti i territori dell’ex-Impero, nonostante perduranti sacche di resistenza controrivoluzionaria, le province che ne avevano fatto parte e si erano costituite in repubbliche sovietiche, nell’esercizio del loro diritto all’autodeterminazione e su indicazione del Partito Comunista Bolscevico, forza egemone del movimento rivoluzionario, decisero di unirsi alla RSFSR e costituire l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche.
Il Partito Comunista Bolscevico ebbe un ruolo centrale nella vittoria del processo rivoluzionario che portò alla formazione dell’Unione Sovietica e in tutto il suo successivo sviluppo economico e sociale. Indipendentemente dalla consistenza numerica dei suoi quadri militanti, il Partito, guidato da Lenin e Stalin, ebbe la capacità di interpretare correttamente le aspirazioni e i bisogni delle masse, radicandosi al loro interno, riuscendo a coagulare intorno alla classe operaia tutti gli sfruttati e gli oppressi in un coerente e scientifico progetto di trasformazione rivoluzionaria della società che individuava nell’autocrazia e nella borghesia nazionale russa il principale nemico da abbattere. Il Partito seppe collegare le esigenze immediate del proletariato di allora, sintetizzabili nel trinomio pace, pane e lavoro, all’esigenza della conquista del potere politico e della costruzione di una società socialista che ne garantisse il soddisfacimento, riuscendo a far comprendere alle masse questo collegamento grazie a un’organizzazione capillare soprattutto nelle fabbriche e nell’esercito. Fu questa pratica, oltre alla saldezza della teoria rivoluzionaria, che permise al Partito di divenire forza politica egemone tra le masse e all’interno del variegato movimento rivoluzionario. Lo stretto legame con la classe operaia e il suo principale alleato, i contadini, ha permesso al Partito di continuare ad esercitare la propria funzione di direzione politica durante tutto il periodo della costruzione dell’Unione Sovietica come stato socialista. Enorme fu il progresso sociale che derivò dal consolidamento delle conquiste rivoluzionarie, avvenuto con la formazione dell’URSS, a partire dall’azzeramento dell’analfabetismo di massa (prima della Rivoluzione, meno del 30% della popolazione sapeva leggere e scrivere). In Unione Sovietica era garantito per legge il soddisfacimento effettivo, non il mero riconoscimento formale, di diritti individuali e sociali, impensabile ancora oggi in un quadro di rapporti di produzione capitalistici. Pensiamo al diritto al lavoro con salari e pensioni dignitosi, al diritto all’istruzione e alla sanità gratuite, al diritto all’abitazione (il cui canone non superava il 3% del salario o il 5% del reddito familiare), ma anche a diritti civili quali il divorzio e l’aborto in un contesto di piena parità dei generi. Alle donne era garantito il diritto alla maternità assistita dallo Stato, il diritto di occupare posizioni dirigenziali, a fronte di un costante impegno dello Stato sovietico ad alleviare l’onere dell’educazione dei figli e delle cure domestiche attraverso la creazione di apposite strutture gratuite di assistenza all’infanzia, quali asili nido, mense, colonie estive e invernali, ecc.. Oltre alle ferie pagate, i lavoratori, tramite i sindacati, disponevano di strutture sanitario-turistiche dove trascorrere le vacanze a prezzi politici o, per i “lavoratori d’assalto”, addirittura gratuitamente. All’inizio degli anni ‘50, Stalin e il Politburo del Partito elaborarono un progetto di riduzione dell’orario di lavoro a 5 ore giornaliere per 5 giorni alla settimana, successivamente accantonato dalle riforme khruscioviane.
Questo straordinario progresso sociale non sarebbe stato possibile senza un corrispondente progresso economico. I risultati economici dell’URSS testimoniano l’indiscutibile superiorità della pianificazione centralizzata socialista rispetto all’anarchia della produzione capitalistica, sia in termini quantitativi che qualitativi. La proprietà sociale dei mezzi di produzione e, quindi, l’assenza dei vincoli e dei condizionamenti imposti dalle variabili profitto e rendita, ha permesso che l’economia socialista si sviluppasse liberamente nella direzione del soddisfacimento multilaterale dei bisogni materiali e spirituali delle masse e delle esigenze reali del paese, anziché essere incentrata sull’arricchimento di una minoranza di capitalisti e redditieri.
Negli anni dell’industrializzazione, dal 1928 al 1940, in cui i primi piani quinquennali riflettono l’esigenza di rafforzare l’URSS, a fronte dell’accerchiamento e del boicottaggio imperialista e dell’ormai inevitabile prossimo conflitto con la Germania, attraverso la modernizzazione e il potenziamento dell’industria pesante, il PIL dell’URSS crebbe di più del 60% rispetto all’anno base, come riconosce anche l’economista americano Abraham Bergson, mentre negli stessi anni il PIL degli USA diminuì complessivamente del 33%. Nello stesso periodo, la produzione industriale in quota al PIL passò dal 28% al 45%. Nei soli due primi piani quinquennali, dal 1928 al 1937, la produzione di macchine industriali aumentò di undici volte. Nonostante le enormi distruzioni subite a causa della guerra e dell’occupazione nazista di buona parte del suo territorio europeo, la produzione industriale dell’URSS raggiunse i livelli prebellici nel 1948, quella agricola nel 1950. In quello stesso anno, il PIL dell’Unione Sovietica conquistò la seconda posizione al mondo dopo quello degli USA. Questi rapidi ritmi di sviluppo e di ripresa postbellica, a tutt’oggi ineguagliati, furono resi possibili dalla dinamica fermezza – passateci l’apparente ossimoro – della direzione politico-economica del paese da parte del Partito Comunista guidato da Stalin e dal suo profondo legame con la classe operaia e i lavoratori, che rispondevano prontamente agli appelli di mobilitazione sul fronte della produzione. Il movimento stakhanovista dei “lavoratori d’assalto” e il movimento dei “razionalizzatori” apportarono un enorme contributo all’innovazione dei processi produttivi e testimoniano come, in un’economia socialista, le energie e la creatività dei lavoratori trovino spazio all’interno della pianificazione. L’aumento di produttività, generato dal progresso tecnico-scientifico che è dialetticamente risultato e motore dello sviluppo economico, anziché creare disoccupazione e sfruttamento, in un’economia socialista pianificata, quale era quella dell’URSS, andavano a vantaggio dell’intera collettività senza incidere sui livelli occupazionali, ma determinando solo un diverso impiego delle risorse umane. Inoltre, la riduzione pianificata dei costi di produzione consentiva di ridurre i prezzi di distribuzione dei prodotti, riducendo così anche la massa monetaria in circolazione nella direzione di una futura, completa scomparsa dei rapporti di scambio monetario-mercantili.
La giornalista e scrittrice statunitense Anna Luise Strong, nel suo noto report “The Stalin Era”, racconta come, lungi dall’essere “irrigiditi” e oppressi dalla pianificazione, i sovietici sperimentarono in quegli anni «la più grande esplosione di creatività produttiva vista in tempi recenti».
Non meno significativi furono i traguardi raggiunti dall’Unione Sovietica nel campo della cultura, della scienza e dello sport. La grande attenzione che il Partito Comunista dedicava allo sviluppo spirituale complessivo della personalità umana e un sistema educativo che garantiva a tutti l’accesso effettivo all’istruzione, alla cultura e allo sport permisero di massimizzare la forza creativa e il talento delle masse. La valorizzazione delle risorse umane e intellettuali del popolo sovietico spiega come l’Unione Sovietica abbia raggiunto punte d’eccellenza senza eguali al mondo nei campi della musica, della danza, della letteratura, del cinema, delle arti figurative, delle discipline sportive, della ricerca scientifica e dell’innovazione tecnologica. Successi impossibili da raggiungere nell’ambito del capitalismo, dove l’accesso all’istruzione, alla cultura e allo sport è limitato da condizioni di censo e di classe, dove le arti e la scienza non sono libere, ma subordinate allo scambio mercantile e alle ragioni del profitto e del capitale.
Non bisogna dimenticare che l’enorme sviluppo economico, sociale, culturale e scientifico dell’URSS avvenne in condizioni estremamente difficili, di incessante aggressione da parte dell’imperialismo, messa in atto attraverso l’isolamento politico e diplomatico, il boicottaggio economico, la diversione ideologica e politica, l’infiltrazione di spie e agenti provocatori, la corruzione, la guerra. Subito dopo la fine della guerra civile, prima la Russia sovietica e, dal 1922, l’URSS furono circondate da un “cordone sanitario”, una cortina di ferro ante litteram, di paesi ostili che fornivano una base logistica alle bande controrivoluzionarie residue e ai sabotatori e impedivano gli scambi commerciali via terra, mentre quelli via mare erano sottoposti al blocco navale. Negli anni dell’industrializzazione e della collettivizzazione delle campagne, l’imperialismo sostenne e armò le bande controrivoluzionarie, composte da elementi delle vecchie classi dominanti, monarchici, nazionalisti, reazionari e anticomunisti d’ogni risma, esponenti del clero e kulaki, contadini proprietari arricchiti, che imperversavano in territorio sovietico, torturando e uccidendo comunisti, attivisti del movimento colcosiano e funzionari del potere sovietico, devastando campagne e villaggi, incendiando i raccolti e abbattendo il bestiame. Fu questa attività banditesca di sabotaggio, rapina e devastazione, non l’industrializzazione, a causare il cosiddetto holodomor, cioè la fame e la carestia che nel 1932 colpirono l’Unione Sovietica. Il Partito Comunista fu costretto a reagire con durezza, mobilitando il proletariato al fianco dei servizi di sicurezza e dell’Armata Rossa per reprimere i sabotatori affamatori del popolo, ma anche per porre fine agli eccessi estremistici, messi in atto durante la collettivizzazione da elementi provocatori trotzkisti e anarchici.
In quegli anni, il Partito Comunista fu costretto ad affrontare e liquidare anche la cosiddetta opposizione interna, che a suo modo minacciava la stabilità e lo sviluppo del paese. Gli storici più seri hanno ormai dimostrato che il trotzkismo, il bukharinismo, il deviazionismo di destra e di sinistra, il bonapartismo di alcuni alti ufficiali dell’Armata Rossa, con le loro trame, in parte dovute ad ambizioni personali, in parte a errate concezioni ideologiche e politiche, erano in qualche modo legate ai servizi di spionaggio imperialisti e costituivano una seria minaccia alla sopravvivenza stessa del primo stato proletario al mondo. La lotta ideologica interna al Partito terminò con la vittoria della linea di maggioranza, rappresentata da Stalin e sostenuta da gran parte dei dirigenti di spicco dell’Internazionale Comunista, tra cui un Antonio Gramsci già prigioniero nelle carceri fasciste.
Anche di fronte alla minaccia nazista, gli imperialisti continuarono a praticare una politica ostile , rifiutando ogni proposta di collaborazione politica e militare con l’URSS per arginare l’espansionismo guerrafondaio della Germania e scendendo a patti con Hitler (Conferenza di Monaco, 1938) nella speranza di poter utilizzare la macchina bellica tedesca in funzione antisovietica. Il reiterato rifiuto delle proposte sovietiche da parte degli imperialisti inglesi e francesi costrinsero nel 1939 l’Unione Sovietica alla firma del Patto di non aggressione con la Germania, teso a procrastinare l’inizio di una guerra ormai inevitabile.
In uno sforzo senza precedenti di mobilitazione, dando ancora una volta prova della grande compattezza e unità tra il Partito Comunista, il Comandante Supremo, l’Armata Rossa e le masse popolari, l’Unione Sovietica, con oltre 25 milioni di morti, fornì il più determinante contributo alla liberazione dei popoli dalla peste nazifascista. Il 2 maggio 1945, la bandiera rossa con la falce, il martello e la stella veniva issata sul tetto del Reichstag e il 9 maggio i vessilli con la croce uncinata venivano gettati ai piedi del Mausoleo di Lenin nella Parata della Vittoria sulla Piazza Rossa.
La vittoria sul nazifascismo e sul militarismo giapponese consentì la formazione delle cosiddette democrazie popolari non solo nei paesi dell’Europa Orientale, liberati dall’Armata Rossa, ma anche in Asia. Nel 1949, l’URSS e le democrazie popolari europee diedero vita al COMECON, un organismo di integrazione e cooperazione economica e commerciale, basato su principi di solidarietà internazionalista proletaria, di equità degli scambi, reciprocità dei vantaggi e uguaglianza dei membri. L’URSS contribuì in maniera preponderante allo sviluppo del COMECON e della cooperazione con gli altri stati avviati verso la costruzione del socialismo, fornendo loro aiuti materiali e tecnico-scientifici determinanti per lo sviluppo delle loro economie.
La guerra fredda e la corsa agli armamenti, imposta dagli imperialisti occidentali, pur costringendo l’URSS a destinare una quota consistente del proprio reddito nazionale alla produzione militare, non impedì al paese di preservare gli alti standard di giustizia sociale propri di uno stato socialista e di svolgere un ruolo di primo piano nell’arena politica mondiale. Fedele ai principi dell’internazionalismo proletario, l’URSS ha sempre sostenuto i partiti comunisti e operai dei paesi capitalistici e i movimenti di liberazione nazionale nelle loro lotte per l’emancipazione dei lavoratori dal giogo del capitale e dei popoli dall’oppressione coloniale e neocoloniale, aiutando i paesi emergenti ad avviarsi sulla via dello sviluppo con accordi commerciali e di cooperazione equi e con la fornitura di aiuti finanziari, tecnico-scientifici e militari a condizioni di favore, ben diverse da quelle imposte dalle maggiori potenze imperialiste, tese a rapinare le risorse locali e a strangolare le economie dei mercati di sbocco con un indebitamento insostenibile causato dall’acquisto della loro produzione in eccesso. Solo nel periodo 1971-1983 l’Unione Sovietica ha trasferito ai propri alleati in Europa Orientale e a Cuba aiuti per un valore di 153,6 miliardi di dollari, a fronte dei 109,83 miliardi di dollari, conferiti dagli Stati Uniti ai loro alleati in tutto il mondo. Anche da questo punto di vista, l’URSS rappresentò un formidabile elemento di contrasto alla prepotenza e ai piani delle centrali imperialiste occidentali. La sua potenza militare permise di limitare, per quanto possibile, le aggressioni imperialiste, garantendo una situazione di relativa pace per quasi mezzo secolo.
Questo è quanto mai evidente oggi, quando la scomparsa dell’Unione Sovietica e il ripristino del dominio mondiale dell’imperialismo ha aperto una fase di acutizzazione delle contraddizioni inter-imperialiste, segnata da un aumento dei conflitti armati nel mondo, compreso lo spazio territoriale ex-sovietico, da una crescente militarizzazione dell’Europa, da una nuova corsa al riarmo e dal rischio di guerra nucleare tra superpotenze. Sul piano del rapporto tra le classi, la scomparsa dell’URSS ha permesso alla borghesia di scatenare un attacco senza precedenti contro la classe operaia e i ceti popolari. In un revanchismo senza precedenti, vengono cancellate tutte le conquiste sociali, strappate con decenni di lotte operaie anche grazie al timore che il proletariato dei paesi capitalistici potesse radicalizzarsi, imboccare la via della rivoluzione e trovare supporto nell’Unione Sovietica. Vengono gravemente limitati i diritti politici e sindacali, vengono intensificate la repressione poliziesca, la persecuzione giudiziaria e il controllo spionistico contro i lavoratori e le loro avanguardie, in una generalizzata involuzione reazionaria degli stati borghesi.
Per i lavoratori e i popoli dello spazio ex-sovietico, la liquidazione del socialismo e la scomparsa dell’URSS sono stati addirittura catastrofici. La restaurazione del capitalismo, accompagnata dallo smantellamento dei servizi sociali e del sistema sanitario sovietico, hanno determinato un drastico peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei ceti popolari e un loro drammatico impoverimento, con un tasso di mortalità superiore all’11‰, paragonabile solo a quello dei paesi africani più poveri. La dissoluzione dell’URSS ha generato l’esplosione delle contraddizioni tra le borghesie al potere in Russia e nelle altre repubbliche ex-sovietiche e un’aspra competizione tra loro per la spoliazione e la spartizione del potenziale industriale, agricolo e infrastrutturale, creato dal potere sovietico e sottratto al popolo con le privatizzazioni criminali degli anni ‘90. Questo ha riportato, per la prima volta dalla II Guerra Mondiale, la guerra nei territori dell’ex-Unione Sovietica, ponendo popoli che avevano convissuto pacificamente per 70 anni gli uni contro gli altri in conflitti fratricidi, spesso fomentati dalle ingerenze eversive di potenze imperialiste concorrenti, giustificati da pretese motivazioni nazionalistiche o religiose. Le guerre in Cecenia, Transnistria, Ossezia del Sud, tra Armenia e Azerbaigian in Nagorno-Karabakh, tra Tagikistan e Kyrgyzstan al confine tra le due repubbliche, fino all’odierna guerra in Ucraina, sono il prodotto delle generali contraddizioni del capitalismo nella sua fase imperialista e, al tempo stesso, una diretta conseguenza della liquidazione del socialismo e della scomparsa dell’URSS. Come sempre accade in queste situazioni, il proletariato e i ceti popolari pagano con sofferenze e distruzioni l’arricchimento della borghesia capitalistica.
Dal positivo bilancio dell’esperienza sovietica i comunisti devono trarre tutti gli insegnamenti che essa offre, rialzando le bandiere della Rivoluzione d’Ottobre, della costruzione del socialismo, della vittoria sul nazifascismo, dell’internazionalismo proletario e della lotta antimperialista che furono proprie dell’URSS, ma anche continuando ad analizzare le cause della sua dissoluzione e della temporanea vittoria della controrivoluzione.
Il Fronte Comunista, insieme ai partiti che costituiscono la parte più avanzata del Movimento Comunista Internazionale, ha studiato con attenzione il processo involutivo che, a partire dalla morte di Stalin nel 1953 e dal XX Congresso del PCUS nel 1956, ha portato alla stagnazione, alla catastrofica perestrojka e, infine, alla dissoluzione dell’URSS. In sintesi, qui possiamo dire che individuiamo le cause di questo lento processo degenerativo principalmente nelle riforme economiche e politiche, volute dai revisionisti Khruščev e Kosygin e attuate a partire dal 1956 sotto il pretesto della lotta al “culto della personalità”: il ripristino di forme di proprietà privata dei mezzi di produzione (ad esempio, nel 1958, il trasferimento delle Stazioni di Macchine e Trattori dalla proprietà statale a quella dei kolkhoz, che impoverì fortemente le fattorie collettive a causa dello sforzo finanziario richiesto per l’acquisto dei mezzi di produzione) e della terra (la concessione in proprietà, anziché in uso, di terreni fino a 6 are, che di fatto trasformava milioni di cittadini sovietici in micro proprietari), i maggiori poteri concessi nelle industrie ai direttori rispetto ai consigli operai, l’introduzione della flessibilità per le grandi aziende rispetto alla realizzazione degli obiettivi fissati dai piani, che depotenziava l’efficacia della pianificazione centralizzata nel fissare le linee di sviluppo complessive del paese e trasformava le grandi aziende in centri di potere pressoché autonomi, dove i direttori avevano grandi poteri, la burocratizzazione del partito e del suo funzionariato che, di fatto, si sovrapponeva al ruolo dei soviet, sostituendolo e svuotandolo, in materie che esulavano dal ruolo di direzione politica, ecc.. Queste e altre disgraziate riforme introdussero nel corpo sano del socialismo sovietico elementi di mercato, estranei e patogeni, che favorirono la crescita di un embrione di nuova borghesia, presente anche negli organismi di partito, che, prima o poi, avrebbe rivendicato la propria legittimazione politica ed economica, come poi effettivamente successe con la perestrojka e il colpo di stato del 1991. L’idea profondamente sbagliata, imposta dal revisionismo khruscioviano, che le classi fossero definitivamente scomparse, disarmò il partito e la classe operaia, impedendo loro di percepire il pericolo e di lottare efficacemente contro di esso. Ciò permise alla nuova borghesia di incistarsi negli organismi e nei posti direzionali del partito e dello stato e, insieme a elementi criminali e corrotti che avevano lucrato con il mercato nero provocato da fenomeni di scarsità volutamente creati, di prendere il potere nel 1991, nella quasi totale passività dei lavoratori, che avevano ormai perso ogni fiducia nel partito e ogni legame non liturgico con esso.
L’Unione Sovietica di Lenin e Stalin resta un faro da cui il proletariato mondiale e i comunisti devono trarre ispirazione ideale e pratica nella loro lotta per un futuro di libertà, uguaglianza, giustizia sociale, pace e fratellanza solidale tra i popoli, studiando non solo le ragioni della grandezza del primo stato socialista al mondo, ma anche le cause della sua scomparsa, per non ripetere gli errori volutamente commessi dai revisionisti.
NON HA FALLITO IL SOCIALISMO, HA FALLITO IL REVISIONISMO!
VIVA L’UNIONE SOVIETICA DI LENIN E STALIN!