La federazione Calabria del Fronte Comunista denuncia l’ennesima tragedia dovuta alle condizioni del servizio sanitario locale. Un uomo di 48 anni è deceduto due giorni fa in Calabria a bordo di un’ambulanza sulla Statale 107, dopo essersi sentito male nel pomeriggio. Era arrivato al Pronto soccorso di San Giovanni in Fiore, dove gli operatori sanitari ne avevano compreso subito le gravi condizioni e si erano mobilitati per trasferirlo altrove. Tuttavia, a causa della nebbia, l’elisoccorso è stato impossibilitato a intervenire e nel 118 non era presente un medico disponibile per il trasporto immediato in ambulanza. Il ritardo nel trasporto è quindi stato fatale.
Questo dramma, legato ai tagli al Servizio Sanitario Nazionale, rappresenta molto bene quanto la Calabria sia uno dei territori che più hanno pagato questi decenni di politica classista, in cui a un congruo finanziamento della sanità pubblica e delle scuole di specializzazione per gli operatori sanitari si è preferita una montagna di sussidi alle imprese, l’accreditamento di numerose cliniche private e costose esternalizzazioni dei servizi sanitari collaterali ad aziende e cooperative attraverso appalti e subappalti. In generale, sul piano nazionale, si è preferito cedere al ricatto dei capitali finanziari e alla loro richiesta di smantellamento dei servizi pubblici con il pretesto dei vincoli di bilancio. Tutto ciò ha posto le basi materiali, in Calabria, di tragedie come queste: chiusura di ospedali (18 dall’inizio del piano di rientro sanitario, in vigore ormai da 12 anni), tagli al personale (fino a 5000 unità in meno rispetto a 12 anni fa), inesistenza della medicina territoriale, depauperamento degli ospedali di montagna e, in generale, degli ospedali periferici e infine scarsità dei mezzi nei reparti di emergenza-urgenza e nel servizio 118. A ciò si aggiunge il fenomeno della migrazione sanitaria, che ogni anno costa alla Calabria oltre 300 milioni di euro e obbliga migliaia di cittadini a spostarsi in altre regioni per ricevere cure adeguate.
Questo quadro è evidente, ad esempio, se si dà uno sguardo all’impoverimento degli ospedali di “periferia” di una delle province più povere del Paese, quella di Vibo Valentia. Nel caso dell’ospedale di Tropea, che nel periodo turistico deve comunque servire un bacino di circa 150.000 persone, si è passati dall’avere un ospedale pressocché completo venti anni fa ad avere, oggi, un presidio sanitario con soli tre reparti funzionanti: oncologia, dialisi e medicina generale, oltre ai servizi di pronto soccorso, radiologia e laboratorio analisi. Reparti e servizi che subiscono quasi ogni giorno carenza di personale: quello di medicina generale, ad esempio, si è ritrovato da qualche giorno a funzionare con un solo medico e un solo infermiere. Tutto questo perché l’Azienda Sanitaria di Vibo Valentia si è distinta come l’unica azienda sanitaria in Italia a non aver stabilizzato i lavoratori precari Covid. Il rinnovo è stato assicurato solo per 4 Oss e 13 infermieri, mentre 23 operatori sono andati perduti a scadenza di contratto; ciò ha causato un buco di personale nell’ospedale di Vibo Valentia, il maggiore della provincia, che è stato colmato dalla terna commissariale che oggi dirige l’Azienda Sanitaria dichiarando in esubero molto personale del presidio tropeano, dal quale sono stati trasferiti su Vibo circa 10 professionisti. Con i tagli lineari alla sanità pubblica, si coprono le esigenze in un ospedale lasciando scoperto un altro ospedale.
Discorso simile per l’ospedale di Serra San Bruno, che era inizialmente un ospedale generale, declassato come ospedale di zona disagiata nel 2010, nel quale in questi anni sono stati chiusi ostetricia, ginecologia, cardiologia e chirurgia generale, lasciando attivi la lunga degenza e la medicina generale, che successivamente sono state accorpate. La chirurgia è stata chiusa, in particolare, dopo un rifacimento delle sale operatorie che è costato 800.000 euro. Gli abitanti di Serra San Bruno, città di montagna, che devono fare due ore di auto su una strada disagevole per raggiungere l’ospedale di Vibo Valentia, avevano un tempo anestesisti, radiologi, un cardiologo, mentre oggi hanno un ambulatorio di chirurgia, per interventi ambulatoriali, e un ambulatorio di cardiologia in cui tra meno di un mese il cardiologo che lo porta avanti andrà in pensione. Oggi per le consulenze cardiologiche, chirurgiche e per le TAC i pazienti vengono trasportati a Vibo Valentia o in altri ospedali e la radiologia funziona con la tele radiologia: le immagini vengono mandate sempre a Vibo Valentia.
Nel cosentino la situazione della casa della salute di Lungro non fa eccezione. L’ex ospedale, dalla metà degli anni Novanta, è stato pian piano privato dei servizi e dei reparti fino a quando l’ormai famigerato Piano di Rientro ne ha decretato la chiusura.
La trasformazione in casa della salute e la successiva promozione a Spoke territoriale non hanno mai rispettato realmente le funzionalità necessarie per far sì che esso potesse rimanere un presidio territoriale efficiente: circa 4 anni fa è stato chiuso il laboratorio analisi nonostante fosse in piena funzionalità, da più di due anni (per il pensionamento dell’ultimo tecnico) la radiologia si è trasformata in un servizio ad intermittenza nonostante la sostituzione del macchinario radiografico; i servizi ambulatoriali (anch’essi attivi solo alcuni giorni al mese rendendo di fatto inefficiente il servizio per l’utenza) sono privi di strumentazioni adeguate – mancano computer, etichettatrici e alcuni strumenti diagnostici fondamentali – ed è impossibile utilizzare la piazzola di atterraggio dell’elisoccorso che, perciò, è stata trasferita a 2 chilometri dalla struttura. L’ex ospedale di Lungro, allo stato attuale, garantisce il funzionamento di un reparto dialisi costantemente a corto di personale, di una piccola RSA medicalizzata e di uno scarno PPI.
Questo il quadro desolante di un presidio ospedaliero che dovrebbe servire decine di migliaia di persone nel distretto Esaro-Pollino e che invece, per gli interessi dei privati, è stato depotenziato e reso inefficiente.
Il taglio ai servizi sanitari pubblici in Calabria è andato di pari passo con l’incremento dello strapotere della medicina privata. Un esempio emblematico di questa deriva è rappresentato dalla decisione di riservare 4 posti letto a pagamento nel reparto di chirurgia toracica dell’ospedale Annunziata di Cosenza. Questa scelta istituzionalizza un sistema a due velocità, dove chi può permettersi di pagare accede immediatamente alle cure, mentre chi non dispone delle risorse economiche resta intrappolato in lunghe liste d’attesa. Un caso che ha destato scalpore e indignazione è stato quello di Roberto Occhiuto, il presidente della regione, che si è affidato a un chirurgo di una clinica privata per operarsi presso il Policlinico di Catanzaro, potendo usufruire di un metodo non invasivo di intervento che è precluso alla stragrande maggioranza degli abitanti del territorio. E mentre per chi ha il denaro e le relazioni giuste il Policlinico di Catanzaro ospita interventi specialistici, quando si tratta di formare medici per il settore pubblico offre, invece, prestazioni al di sotto dei termini di legge: affinché gli specializzandi della facoltà di medicina della città possano disporre della casistica necessaria alla propria formazione, la legge prevede che servano 1200 tra ricoveri ordinari e day hospital ma in realtà, secondo i dati di Agenas ricavati dalle cartelle cliniche dei pazienti, il loro numero nel Policlinico si ferma a 581.
Ci sono, in sintesi, tre condizioni preliminari per avere una sanità pubblica efficiente, che si possono raggiungere solo con le lotte dei proletari, le stesse lotte che hanno reso possibile l’istituzione del SSN negli anni Settanta. Queste condizioni sono una ripresa massiccia del finanziamento alle strutture sanitarie pubbliche, l’integrazione dei frammentati servizi sanitari regionali in un unico servizio sanitario nazionale e l’internalizzazione completa della medicina privata nel settore pubblico. In particolare, su quest’ultimo punto va notato che i professionisti privati e le cliniche private, essendo legati a doppio filo alle amministrazioni del settore pubblico, hanno un ruolo attivo nell’influenzare la politica generale e nello spingere sempre di più alla delega dei servizi al privato: sanità pubblica efficiente e sanità privata sono incompatibili.
L’obiettivo immediato del Fronte Comunista è l’abolizione del piano di rientro sanitario regionale, pretesto per dirottare tutti i servizi alla medicina privata, e il ripristino dei posti letto e del numero di unità di personale tagliati nei presidi pubblici dall’entrata in vigore del piano stesso. Questo impone il dirottare nella sanità pubblica le risorse ingenti che oggi sono alla mercè, ad esempio, di agevolazioni alle aziende, elusione fiscale, regali alle cliniche private. L’obiettivo generale è lottare per una sanità pubblica efficiente, potenziando gli investimenti strutturali in modo da garantire un adeguato numero di personale sanitario e presidi ospedalieri presenti sul territorio, organizzati in un unico sistema sanitario nazionale, investendo maggiori risorse in strutture e in personale in ottica preventiva e non solamente di cura.
Occorre, poi, rivendicare il principio della gratuità universale della prestazione sanitaria, contro la logica delle “aziende sanitarie” che concepisce la prestazione medica come una merce, l’abolizione dei ticket sanitari e di ogni forma di tassazione analoga che grava sui pazienti, l’abolizione dell’obiezione di coscienza prevista dalla legge 194/78, che rende la Calabria un posto dove l’aborto è difficile da praticare negli ospedali pubblici, l’implementazione di consultori familiari funzionanti e di servizi sanitari per l’infanzia e l’adolescenza. La sanità pubblica deve diventare un servizio che punta ad emancipare i proletari dal ricatto tra salute e lavoro, garantendo anche le necessarie tutele e certificazioni ai salariati che soffrono di malattie totalmente o parzialmente invalidanti o che subiscono infortuni sul luogo di lavoro, spesso minimizzati nei reparti ospedalieri a causa del legame politico tra professionisti sanitari, imprenditoria e amministrazione locale.
Un piano così ambizioso non potrà essere raggiunto se non con una sollevazione organizzata dei ceti popolari, della classe lavoratrice locale e nazionale, in assenza del quale prevarrà il ricatto del capitale a tutti i livelli. Nel lungo periodo, infine, solo un cambio del modello produttivo, come ha insegnato la storia, garantisce l’immunità dal ricatto dei capitali e la stabilizzazione di un servizio sanitario veramente universalistico.